Così Carola racconta la sua storia.
Ho quarant’anni. La storia dei miei malesseri è cominciata quando ne avevo ventisette.
Sei mesi dopo la morte di mio padre ho avuto il primo attacco di panico. Ero sola, in autostrada: una sensazione intollerabile è esplosa dentro di me, facendomi pensare di star per morire. Avevo la gola strozzata, le gambe inerti, le braccia tremanti e una violenta tachicardia.
E’ cominciato così un calvario di manifestazioni fisiche quasi insostenibili, cui si è presto aggiunta l’agorafobia: in breve tempo, dopo aver eseguito i più svariati esami clinici che hanno escluso la possibilità che fossi affetta da malattie organiche, sono precipitata in un incubo di paure.
Io che avevo scelto di essere una libero professionista, che vivevo sola, lontana da casa, orgogliosa della mia indipendenza, del successo raggiunto nella mia attività, non ero più padrona di me stessa. Il mondo si era ristretto fino a diventare soffocante. Guidare, dormire sola, camminare per la strada erano diventate imprese eroiche da portare a termine con enorme sforzo o da sfuggire come qualcosa di inaffrontabile.
Il sintomo più opprimente era una continua difficoltà a respirare.
Dopo due anni caratterizzati da una qualità di vita quasi insostenibile, durante i quali ho messo a dura prova l’affetto di amici e familiari, mi è stata consigliata una terapia psicologica di sostegno, durata circa un anno, con incontri settimanali. Sono giunta a comprendere che il senso di soffocamento continuo era la somatizzazione di un disagio psicologico.
Ho imparato che il mio corpo, facendomi soffrire così tanto, mi stava in realtà costringendo a modificare un modo di vivere che la mia “anima” non poteva più accettare.
Incredula, ho scoperto quale eccezionale collegamento esista tra la psiche e il corpo e come l’angoscia possa, per taluni individui, trasformarsi in malessere organico.
Pian piano ho modificato la mia vita. Con grande fatica ho lasciato l’uomo che avevo sposato, cui volevo bene come ad un fratello, rendendomi conto che il nostro matrimonio era nato dalla mia paura, dalla mia necessità di un rifugio.
Ho cominciato una nuova vita, riacquisito la fiducia nel mio corpo attraverso un lento allenamento mentale.
Sono trascorsi quattro anni, durante i quali ho vissuto sola, sentendomi bene, senza episodi di panico, con la sensazione di costruire una vita mia, che nessuno potesse strapparmi.
Ho conosciuto un uomo. Mi sono innamorata. E’ iniziata una storia.
Con lui ho giocato il ruolo della donna sicura, senza debolezze, della professionista di successo, libera e indipendente, occultando accuratamente i miei bisogni più profondi.
Un giorno, al termine di una settimana di vacanza trascorsa in solitudine ad osservare le famiglie intorno a me e dopo aver saputo che lui non mi avrebbe raggiunta, ho avuto, in spiaggia, un attacco di panico. Non ricordavo più la violenza di quei sintomi.
Sono tornata e ho cercato di dimenticare, attribuendo quell’episodio ad una momentanea contingenza. Quindici giorni dopo, un altro attacco, poi un altro ed un altro ancora. L’ho raccontato a mia madre. Nessuno doveva saperlo, soprattutto lui. Mi frequentava da tre anni ritenendomi una donna forte, serena, piena di vita. Del resto, avevo fatto di tutto per dargli questo tipo d’immagine di me. E’ arrivato agosto. Riuscivo ancora a mascherarmi dietro un’apparente normalità.
Poi mi sono trovata di fronte ad un’avventura insostenibile: un viaggio, da lui proposto, che mi avrebbe portata lontana da qualunque persona o luogo familiare. Ho scelto le mie paure, non sono andata. Lui mi ha lasciata.
Qualcosa dentro di me ha ceduto: sono impazzita in un delirio di malessere fisico, di paura di uscire da casa, di guidare, di stare sola. La mia vita all’improvviso mi sembrava priva di scopo, senza significato. I dubbi e le paure che mi avevano accompagnata per tutta la vita erano ormai così amplificati da occupare totalmente i miei pensieri. Ho smesso di dormire, di mangiare, di lavarmi, di sperare.
Terrorizzata dalle sensazioni che il mio corpo mi comunicava, ho ripetuto esami clinici, tormentando il mio medico perché rintracciasse dentro di me l’organo che, ammalandosi, causava quel dolore insopportabile. Le gambe perdevano forza e non mi sostenevano, la testa mi girava, lo stomaco era impazzito.
Il mio corpo era sano. Ho faticato molto a convincermene. Ho iniziato un’ analisi, a frequenza bisettimanale, ma ancora oggi, a distanza di nove mesi, capita di chiedermi se davvero io non abbia semplicemente un involucro malato.
Ma so che non è così.
In questi mesi ha lentamente cominciato a delinearsi la massa di emozioni inespresse che, stratificate nel corso degli anni, si sono manifestate attraverso l’unica forma di sofferenza che non sono in grado di occultare.
Attraverso il fiume di parole con cui ho raccontato la mia storia all’analista, ho imparato ad osservarmi da un insospettabile, nuovo punto di vista.
Non sono una vittima delle circostanze, come amavo pensare. Ho scoperto in me due aspetti, tra loro contrastanti: uno adulto, di donna sicura e di successo, nel quale mi piace riconoscermi, ed uno ancora piccolo, fragile e insicuro, che non mi piace, che non ho voluto accettare, che ho nascosto agli altri e a me stessa. Questa parte negata ha finito per esprimersi attraverso il mio corpo, chiedendo di essere riconosciuta e accudita dalla parte adulta nell’unico modo possibile: i sintomi. Sono loro che mi hanno costretta a fermarmi, a chiedermi il “perché” della loro presenza e a prendere in considerazione i miei bisogni emotivi più profondi, finora non riconosciuti e tendenzialmente negati.
Per anni, in preda al bisogno d’amore, avevo operato una delega all’esterno, al marito prima e all’attuale compagno ora, da me vissuti come esseri salvifici che sarebbero stati garanti del mio valore come persona.
Lentamente sto imparando a manifestare le mie debolezze, ad apprezzare le mie qualità, a tollerare i miei difetti. Lui è tornato. Adesso sa che non sono solo forte e serena e non trovandosi più di fronte quella che riteneva una donna priva di fragilità ha cominciato a costruire con me un rapporto speciale, esclusivo.
Contemporaneamente alle sedute di analisi, mi sono anche aiutata con farmaci che mi hanno permesso di affrontare i momenti di maggiore crisi. Appartengo a quella esigua minoranza di soggetti che non tollerano gli antidepressivi, per cui ho potuto aiutarmi esclusivamente con un ansiolitico.
Oggi sto meglio, anche se so che la strada da percorrere è ancora lunga. Sono trascorsi mesi che ricorderò per sempre come i più faticosi della mia vita, durante i quali ho potuto sperimentare che, nonostante il tormento, la depressione o le forme d’ansia sono vere e proprie spinte propulsive al cambiamento, un’occasione unica per migliorare la propria vita.