Gli studi statistici sulla distribuzione del disturbo depressivo hanno evidenziato che colpisce le donne con frequenza doppia rispetto agli uomini. Ciò è determinato da:
– motivi socio-economici: spesso le donne ricevono condizionamenti sociali e culturali che forniscono loro scarsi strumenti di autostima e sicurezza personale. Sono, inoltre, soggette a pregiudizi sul loro valore e sulle loro capacità e hanno difficoltà ad occupare posti di responsabilità. In molti casi non sono nemmeno inserite nel mondo del lavoro, non hanno reddito e sono quindi in condizioni di debolezza economica. Dal punto di vista sociale ed economico vivono, quindi, una condizione che predispone all’insorgenza di manifestazioni depressive.
– motivi biologici di tipo ormonale: l’organismo femminile è sottoposto mensilmente a sbalzi ormonali in coincidenza con il flusso mestruale ed è anche sottoposto a vere e proprie tempeste ormonali in coincidenza delle gravidanze o del periodo della menopausa.
– maggiore disponibilità a denunciare la presenza del disturbo depressivo: la donna è meno condizionata dal modello eroico cui l’uomo tende a aderire ed è, quindi, più disponibile a denunciare la presenza di disturbi della sfera emotiva.
Di seguito saranno trattati alcuni temi peculiari della depressione nel mondo femminile: la sindrome premestruale, la depressione conseguente all’interruzione di gravidanza, la depressione durante la gravidanza, la terapia antidepressiva in gravidanza, la depressione post-partum e la depressione in menopausa.
Sindrome premestruale
Ancora oggi un approccio scientifico al fenomeno mestruale e ai disturbi ad esso collegati deve fare i conti con la tradizione culturale che ha fatto delle mestruazioni oggetto di credenze mitiche, superstiziose e religiose e che a lungo le ha considerate causa di impurità e di pericolo.
Per tale motivo sono stati ignorati dalla scienza cambiamenti anche gravi dell’umore, del comportamento e delle capacità cognitive della fase precedente le mestruazioni.
Disturbi dell’umore e del comportamento collegati al ciclo mestruale sono stati descritti fin dal XVII secolo, ma solo nel 1931 uno studio di G. Frank ha descritto un’entità clinica, la “Tensione premestruale”, che si manifesta nella fase luteinica del ciclo, nei 7-10 giorni precedenti le mestruazioni.
Risale agli anni Sessanta la descrizione della “Sindrome premestruale” (SPM) in riferimento all’insieme di sintomi fisici e psichici correlati alle fasi del ciclo.
Cause della sindrome premestruale
Le cause della sindrome premestruale possono essere distinte in socioculturali, psicologiche e biologiche.
L’età del menarca, l’esperienza precoce del dolore mestruale, le scarse informazioni e l’atteggiamento negativo della madre nei confronti delle mestruazioni possono determinare la sintomatologia premestruale. E’ interessante notare che molte madri delle donne che lamentano una SPM ne hanno a loro volta sofferto.
La sindrome è spesso accompagnata da scarsa stima di sé, tendenza alla passività e alla richiesta di aiuto, instabilità emotiva e insoddisfazione affettiva.
Le donne che soffrono di SPM hanno spesso un atteggiamento reattivo nei confronti delle mestruazioni e le considerano una malattia.
Per quanto riguarda i fattori biologici, una delle ipotesi più accreditate sulla genesi della SPM riguarda il ruolo degli ormoni ovarici (estradiolo e progesterone), dal momento che regolano il ciclo mestruale ed hanno anche un effetto diretto sul sistema nervoso centrale.
L’estradiolo, infatti, migliora il tono dell’umore in corrispondenza del suo picco preovulatorio, mentre il progesterone ed i suoi metaboliti, oltre ad avere un effetto sedativo, possono provocare l’abbassamento del tono umorale.
La carenza di progesterone sembra la causa più rilevante nel determinare la SPM e può essere conseguente a difetti di secrezione, di metabolizzazione, di escrezione o a interferenze con altre sostanze.
Anche la prolattina è stata chiamata in causa in quanto i suoi livelli plasmatici tendono ad essere più elevati nelle pazienti sofferenti di SPM, in concomitanza con bassi livelli di progesterone.
.Quadro clinico e problemi diagnostici
La sindrome premestruale è costituita da un insieme di sintomi fisici, comportamentali e affettivi che interferiscono con il normale andamento della vita e si presentano ciclicamente in coincidenza con il flusso mestruale. Per poter fare diagnosi di SPM è necessario che i sintomi inizino nella fase luteinica del ciclo, con l’ovulazione o dopo di essa, migliorino nettamente all’inizio del mestruo e scompaiano alla sua conclusione.
I sintomi principali della SPM sono depressione, facilità al pianto, ansia, irritabilità, modificazioni dell’appetito, tensione mammaria, tensione addominale, ritenzione idrica, cefalea, stipsi, eruzioni cutanee acneiformi.
Possono aggiungersi, con minore frequenza, disturbi neurovegetativi quali nausea e vomito, disturbi dismetabolici quali crampi muscolari conseguenti all’alterazione del ricambio del Calcio e disturbi disendocrini a carico degli ormoni tiroidei.
L’intensità della sintomatologia è variabile, ma in alcune donne può compromettere gravemente la vita di relazione.
La diffusione della SPM è controversa: secondo alcune ricerche la forma meno grave interessa il 60-70% della popolazione femminile in età feconda; la diffusione della forma grave della SPM è, invece, indicata tra il 5% e il 10%. In queste pazienti i sintomi psichici sono più invalidanti ed è evidente la variazione stagionale, con peggioramenti in primavera e autunno, cosa che fa ipotizzare l’esistenza di una sottostante forma depressiva.
La fascia d’età più colpita è quella fra i 25 ed i 40 anni ed è da segnalare la frequente e rilevante interferenza che tale sindrome determina nei confronti del lavoro, delle attività sociali o dei rapporti interpersonali nei 6-7 giorni che precedono le mestruazioni.
In tale periodo, inoltre, una vasta gamma di condizioni mediche generali quali emicrania, allergie e asma, tendono a peggiorare.
Il periodo premestruale ha anche influenza negativa nelle donne che soffrono di altri disturbi psichici e in particolare vanno segnalati:
– l’aggravamento dei disturbi depressivi e ansiosi;
– il peggioramento di alcune sindromi psichiatriche, con incremento dei ricoveri;
– l’aggravamento di attacchi di panico e di bulimia;
– il riacutizzarsi delle cosiddette psicosi atipiche.
Il rapporto tra sindrome premestruale e disturbi affettivi è stato oggetto di studio dal punto di vista clinico, biologico, prognostico e terapeutico e sono stati individuati numerosi punti di contatto tra le due condizioni cliniche. E’ stato inoltre rilevato che il 65% di donne sofferenti di depressione maggiore riferisce una SPM e che in circa 1’80% delle donne che soffrono di SPM è presente, nella storia clinica, almeno un episodio depressivo maggiore. È stato infine osservato un rapporto fra la sindrome premestruale e la depressione puerperale, nel senso che la presenza di una SPM costituisce fattore di rischio per l’insorgenza di un disturbo depressivo nel puerperio.
Terapia
La SPM deriva dall’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali per cui il trattamento deve integrare interventi terapeutici con interventi psicologici, educativi e di sostegno. Operativamente l’intervento deve mirare a:
– individuare i fattori che contribuiscono alla presenza dei sintomi premestruali;
– attivare una psicoterapia rivolta alla cura della psicopatologia sottostante;
– sostenere la donna nel curare i disagi che la SPM può aver provocato a lei ed alle
sue relazioni interpersonali;
– prescrivere farmaci che riducono o risolvono i sintomi.
Nell’ambito della terapia sintomatica gli antidepressivi sono prescritti per i disturbi disforici: l’uso di serotoninergici (fluoxetina, paroxetina, sertralina) dà risultati soddisfacenti anche nel trattamento a lungo termine mentre con le benzodiazepine si ottengono risultati positivi nella fase sintomatica del ciclo.
L’uso dei contraccettivi orali è controverso: alcune donne, infatti, traggono beneficio dal trattamento estroprogestinico o esclusivamente progestinico, ma occorre tenere presente che tali sostanze possono provocare un peggioramento dei sintomi della SPM, in particolare di quelli depressivi.
Depressione e interruzione di gravidanza
Dal punto di vista psicologico, l’interruzione di gravidanza, spontanea o volontaria, è un’esperienza di perdita e può, quindi, determinare complicanze psichiche immediate e tardive.
Il lutto e il cordoglio
Tutte le perdite significative della vita sono seguite da un periodo di lutto e ciò accade anche quando si decide d’interrompere una gravidanza.
Il tema generale del lutto e la sua fenomenologia sono stati trattati in un precedente capitolo. Riprendiamo brevemente alcuni punti.
L’evoluzione del lutto si snoda in tre diverse tappe:
1 – fase dello shock, con incredulità, negazione e confusione;
2 – fase del dolore acuto, caratterizzata da struggimento e depressione;
3 – risoluzione.
La prima fase può durare anche diversi giorni durante i quali il soggetto vive una condizione di stordimento, d’incapacità a reagire e, talvolta, di negazione dell’evento luttuoso.
La seconda fase, quella della reazione acuta, può proseguire anche per molti mesi. Il soggetto sperimenta sentimenti di perdita d’interesse, dolore, tristezza, rabbia e tende a ripensare continuamente all’evento luttuoso. Sul piano sociale compaiono difficoltà a relazionarsi con le persone che lo circondano mentre, sul piano fisico, possono essere presenti sintomi quali cefalea, stanchezza, perdita dell’appetito, senso di oppressione.
Il lutto è superato (risoluzione) quando la perdita è elaborata ed accettata, quando cioè diventa possibile investire su altri oggetti.
Il lutto, sebbene presenti alcune caratteristiche tipiche della depressione, non va considerato un disturbo psichiatrico.
Complicanze psichiche dell’interruzione di gravidanza
Le reazioni e le eventuali complicanze psicologiche conseguenti all’interruzione di gravidanza vanno dalle normali manifestazioni di cordoglio a quadri psicopatologici la cui natura e gravità dipendono dalle caratteristiche di personalità individuale e anche da altri fattori tra cui:
– la tecnica d’interruzione usata (raschiamento o induzione del travaglio);
– il fatto che l’interruzione avvenga o meno per libera scelta;
– la rappresentazione mentale che la donna ha del feto;
– la condizione psicologica precedente l’interruzione;
– la qualità del rapporto con il partner.
Il quadro clinico si manifesta, il più delle volte, con sintomi depressivi che iniziano poche settimane dopo l’intervento.
La comparsa di malattie psichiche gravi è rara: di solito si tratta della recidiva di un preesistente disturbo.
La durata del lutto e delle sue manifestazioni sono dipendenti dalle caratteristiche individuali e dalla cultura di appartenenza.
Secondo il DSM-IV si può formulare diagnosi di episodio depressivo maggiore conseguente ad interruzione di gravidanza solo quando si manifesta entro i due mesi successivi all’evento.
Alcuni quesiti
Quali sono i fattori predisponenti e quelli di rischio per le complicanze psichiche dopo un’interruzione di gravidanza?
I fattori predisponenti sono: la presenza di problematiche affettive all’interno della coppia, la scarsa capacità personale di adattamento agli stress, il non aver deciso liberamente d’interrompere la gravidanza.
I fattori di rischio sono: la presenza di precedenti disturbi psichici al momento dell’interruzione, l’atteggiamento ambivalente verso la gravidanza e l’interruzione, la rottura del rapporto con il partner, la giovane età.
Ripetute interruzioni volontarie possono essere ricondotte a situazioni psicologiche particolari?
La ripetizione dell’interruzione volontaria della gravidanza ha una percentuale che varia, nei diversi paesi, dall’1 al 15% sul totale delle interruzioni. Determinante è lo stile di vita delle donne che abortiscono ripetutamente: spesso vivono in modo impulsivo e generalmente disorganizzato, utilizzano in modo errato la contraccezione, non hanno relazioni sessuali stabili e hanno sofferto o soffrono di disturbi psichici.
Le ipotesi avanzate per spiegare la decisione di abortire per la seconda o la terza volta sono la presunta maggiore facilità di tale scelta rispetto alla prima volta e la possibilità che la decisione sia conseguente ad un desiderio di autopunizione.
Le interruzioni dovute a malformazione fetale implicano uno stress psicologico particolare?
Da alcuni anni tali interruzioni sono in aumento probabilmente per l’uso di strumenti d’indagine diagnostica sempre più sofisticati. L’interruzione della gravidanza per malformazioni fetali comporta uno stress psicologico notevole perché generalmente si tratta di gravidanze desiderate. La maggior parte avviene nel secondo trimestre, periodo in cui è già presente uno stretto legame emotivo della donna al bambino. Inoltre, in questa fase della gravidanza, la tecnica utilizzata per l’interruzione è l’induzione del travaglio con le prostaglandine (simile, quindi, all’induzione al termine dei nove mesi) e ciò rappresenta un ulteriore fattore di stress psicologico rispetto alle tecniche usate nel primo trimestre (raschiamento).
Molte donne vivono forti sentimenti di colpa per aver preso tale decisione e l’impatto psicologico è aggravato dalla consapevolezza che il rischio di malformazione fetale potrà ripresentarsi. Inoltre, spesso, le donne interessate hanno un’età compresa tra i 35 e i 40 anni e quindi possono nutrire dubbi sulla possibilità di un nuovo concepimento.
L’aborto spontaneo è per qualche aspetto una condizione peculiare?
Oltre il 20% delle gravidanze riconosciute va incontro ad aborto spontaneo entro i primi quattro mesi. Spesso, dopo l’aborto, la donna sperimenta paura rispetto alla capacità di concepire, vissuto di fallimento, bisogno di piangere il bambino, sentimenti di colpa per una sua presunta responsabilità.
Va sottolineato che il cordoglio, dopo un aborto spontaneo, è intenso quanto quello provocato dalla morte del neonato o dalla morte di un adulto.
La natura e l’intensità dello stress dipendono dalla risonanza emotiva dell’aborto nella donna e dalle reazioni del suo ambiente.
Alcuni fattori sociali e culturali legati al contesto ambientale possono favorire la manifestazione di lutto patologico, inducendo vissuti di depressione, colpa, vergogna, rabbia.
Il lutto patologico può anche verificarsi quando sono presenti relazioni conflittuali con la madre e/o con il partner o in situazioni di disagio psicologico precedenti la gravidanza.
Depressione e gravidanza
Introduzione
La gravidanza è per la donna un periodo di grandi cambiamenti che richiedono un notevole sforzo di adattamento. In tale periodo, infatti, deve provvedere alla propria salute e a quella del bambino, sviluppare progressivamente un legame con il nascituro, tollerare il cambiamento del suo aspetto fisico, affrontare i cambiamenti sul lavoro determinati dalla maternità.
Le principali aree coinvolte nel processo di cambiamento sono: il rapporto di coppia e con la famiglia d’origine, l’immagine corporea, le fantasie rispetto al bambino che arriverà, la presenza di eventi traumatici che in questa fase possono riattivarsi.
La gravidanza modifica la relazione di coppia in quanto la donna diviene emotivamente più instabile, più bisognosa di attenzioni e sensibile ai segnali di rifiuto, più dipendente dal marito e dai suoi atteggiamenti verso di lei e verso il bambino, più recettiva nei confronti degli stimoli affettivi.
La gravidanza è accompagnata spesso da sintomi fisici, particolarmente evidenti nel primo trimestre. Nausea e vomito sono presenti nel 50-60% delle gravide, ma se perdurano o assumono particolare gravità divengono oggetto anche d’interesse medico. Si ritiene che tali sintomi possano essere conseguenti, dal punto di vista psicologico, ad aspetti conflittuali con la figura materna, ad alti livelli d’ansia e alla presenza di difficoltà a verbalizzare i sentimenti e gli stati emozionali.
Recentemente è stato evidenziato che il legame col feto durante la gravidanza si forma in modo analogo a quanto avviene nella relazione madre-bambino dopo la nascita. Tale processo è catalizzato dalla presenza dei movimenti fetali che costituiscono, per la madre, il segnale della vitalità del feto e della sua reale esistenza. La donna inizia così le sue fantasie sul bambino, impara a riconoscere i diversi movimenti, può immaginare di giocare con lui, spesso conversa col “bambino immaginario” rassicurandolo o rimproverandolo se si muove troppo, usa appellativi affettuosi per rivolgersi a lui e coinvolge il marito in quest’attività fantastica di gioco.
Sono state descritte alcune alterazioni patologiche di tale processo: segnaliamo in particolare il diniego di gravidanza, condizione in cui la madre vive il feto come intruso ed elemento di disturbo fisico e psicologico.
Il diniego di gravidanza può andare dal totale e duraturo disconoscimento all’occultamento o alla mancata presa di coscienza dello stato gravidico. I segni della gravidanza possono essere ignorati dalla donna o attribuiti ad altre condizioni come eccessi alimentari, terapie farmacologiche o considerati come espressione di una malattia addominale.
Gli elementi che ne favoriscono l’insorgenza sono condizioni sociali di relativo isolamento, concepimenti in relazioni extraconiugali, giovane età della donna, livello intellettivo non elevato.
Disturbi psichici in gravidanza
I primi studi sul rapporto tra ansia, depressione e gravidanza risalgono agli anni ’60-’70 e mettono in evidenza il legame tra la depressione in gravidanza e quella puerperale.
È osservazione comune che:
– circa il 40% delle donne in gravidanza presenta ansia, stanchezza, labilità emotiva, insonnia e depressione. L’epoca d’insorgenza di tali disturbi è prevalentemente il primo trimestre e in misura ridotta il terzo, ad eccezione delle ansie legate al parto imminente e alle eventuali complicanze.
– in gravidanza si possono accentuare disturbi psichici già presenti e i sintomi più frequenti sono quelli della serie ansiosa e depressiva;
– la presenza di tali disturbi costituisce fattore di rischio per la Depressione Maggiore e la psicosi puerperale.
Conflitti psicologici possono insorgere quando la gravidanza non è desiderata o avviene in un “momento sbagliato”.
Ulteriore situazione di conflitto si ha quando è complicata da problemi fisici, socioeconomici o da eventi traumatici che rendono la donna ansiosa e insicura oppure la inducono a ritardare il processo di elaborazione di un lutto fino a dopo la nascita, come avviene ad esempio nel caso della perdita di un genitore durante la gestazione.
Altra fonte di conflitto può derivare dalla sopravalutazione o sottovalutazione della gravidanza a causa di esperienze precedenti della donna, della sua famiglia o per la presenza di aspetti nevrotici della personalità. Una storia di sterilità, ad esempio, può determinare un investimento eccessivo nei confronti della gravidanza, così come una precedente interruzione può ritardare il legame emotivo con il bambino fin dopo la sua nascita.
Abitualmente lo stato emotivo della donna durante la gravidanza è più instabile, il suo umore più irritabile, sono presenti preoccupazioni per il parto e modificazioni degli abituali interessi. Tali caratteristiche si mantengono abbastanza stabili fino al puerperio.
Terapia
Il trattamento riguarda essenzialmente i disturbi d’ansia e quelli depressivi.
Quando i sintomi raggiungono una gravità tale da mettere a rischio la prosecuzione della gravidanza, è necessario utilizzare antidepressivi e ansiolitici.
Il loro impiego in gravidanza verrà trattato nel capitolo successivo e a cui rimandiamo.
Il trattamento psicoterapeutico è indicato sia nelle forme più lievi, che non necessitano di terapia con farmaci, sia in quelle più severe, dove è necessario l’utilizzo dei farmaci.
Può essere utile l’intervento psicologico nella forma di counseling, individuale o di coppia, oppure una psicoterapia strutturata.
Depressione e antidepressivi in gravidanza
Antidepressivi assunti prima dell’inizio della gravidanza
Se una donna, in terapia con farmaci antidepressivi per un Disturbo Depressivo o un Disturbo d’Ansia, rimane accidentalmente incinta, si pone il problema se proseguire la gravidanza, per il timore che gli antidepressivi possano causare danni al feto oppure, in alternativa, se interrompere l’assunzione dei farmaci.
La cosa più sensata da fare, ed è quello che si verifica nella maggior parte dei casi, è chiedere consiglio o al medico che li ha prescritti o al ginecologo: è meglio evitare di assumere iniziative fondate sul possesso di informazioni carenti o su base pregiudiziale.
Per alcune donne, specialmente se i sintomi depressivi o ansiosi sono severi, è molto rischioso sospendere gli antidepressivi a causa del rischio di ricaduta.
Vari studi hanno evidenziato che la sospensione autonoma determina recidive nel 90% dei casi, con ricomparsa di idee d’inadeguatezza, astenia, disturbi del sonno e dell’appetito, ma anche, nei casi più gravi, di idee di suicidio.
Se invece la donna è in cura per un disturbo d’ansia, ad esempio per un Disturbo da Attacchi di Panico, la sospensione improvvisa comporta il più delle volte la ricomparsa degli attacchi di panico.
La riattivazione dei sintomi depressivi e ansiosi in gravidanza può determinare l’abbandono del programma di preparazione al parto e dei controlli prenatali, modifiche dell’alimentazione, con assunzione di cibo inadatto e talvolta di alcolici e, nelle fumatrici, l’aumento del consumo di sigarette.
Inoltre la presenza di depressione incrementa il rischio di complicanze ostetriche, di interruzioni spontanee di gravidanza e spesso preannuncia la depressione post partum.
Tutto ciò non indica che l’interruzione della terapia farmacologica sia impossibile, ma piuttosto che tale decisione, così come le modalità d’interruzione, vanno sempre discusse con il medico specialista di fiducia.
Vi sono numerosi pregiudizi che rendono più facile decidere di utilizzare, in gravidanza, farmaci per la cura dell’ipertensione o della bronchite piuttosto che della depressione e non di rado si tende ad esortare la puerpera a farcela da sola, a metterci “più volontà” o “più carattere”, cose che servono solo a farla sentire inadeguata e in colpa.
Gravidanza e Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI)
La decisione di sospendere le cure antidepressive in gravidanza non è, quindi, una scelta obbligata dal momento che molti studi hanno documentato che gli antidepressivi SSRI non sono teratogeni, cioè non determinano aumento del rischio di malformazioni neonatali. Nessun incremento di malformazioni è stato registrato in pazienti in trattamento con Fluoxetina (Prozac), Setralina (Zoloft), Citalopram (Seropram, Elopram) e Paroxetina (Sereupin, Eutimil) rispetto a chi non assume alcuna terapia.
E’ stata evidenziata la possibile presenza, nel neonato, di alcuni effetti collaterali. I problemi maggiori riguardano il primissimo periodo di vita e sono costituiti dalla presenza di lievi sintomi motori, minore coordinazione o tremori, brividi, ipoglicemia e ittero. In alcuni rari casi sono inoltre state segnalate difficoltà respiratorie.
Tali sintomi sono transitori e tendono a scomparire spontaneamente nel giro di poche settimane (da una a sei). Sono più frequenti con assunzione di dosi elevate, per cui è opportuno prendere alcuni accorgimenti: ad esempio, nel caso della Paroxetina, se assunta alla dose piena di 40mg/die, va ridotta alla dose minima di 20 mg/die, pronti eventualmente a tornare alle dosi precedenti nel caso di ricomparsa dei sintomi.
Può anche esser utile introdurre, se non è già presente, un supporto psicologico o tecniche di rilassamento quali il training autogeno.
Ansiolitici e gravidanza
Per quanto riguarda gli ansiolitici, sarebbe consigliabile evitarne l’uso, soprattutto durante il primo trimestre. Nel caso ciò non sia possibile, vanno scelte benzodiazepine con un’emivita breve, ad esempio l’alprazolam, in modo che il feto sia esposto al farmaco per il minor tempo possibile.
Antidepressivi e allattamento
Altro problema da prendere in considerazione è la compatibilità tra assunzione di antidepressivi e allattamento. E’ certo che i farmaci passano al neonato durante il periodo di allattamento, ma è anche vero che, se le dosi assunte dalla madre sono basse, gli effetti per il neonato sono minimi.
Alcuni comunque sostengono che sia preferibile l’allattamento artificiale, oltre che per la presenza di farmaci nel latte materno, anche per non sottoporre la madre a ulteriori sforzi fisici e psichici quali, ad esempio, i frequenti risvegli notturni dei primi periodi dell’allattamento.
Antidepressivi assunti dopo l’inizio della gravidanza
Finora abbiamo esaminato il caso di donne rimaste incinte durante il periodo di assunzione della terapia con antidepressivi. Valutando il caso di donne che, invece, iniziano a presentare sintomi della serie depressiva e/o ansiosa durante la gravidanza, la decisione di assumere farmaci è subordinata alla gravità del disturbo e a quanto i sintomi possano interferire con la possibilità di portare a termine la gravidanza.
Nel caso di sintomi non gravi, vanno presi in considerazione terapie psicologiche o utilizzo di tecniche di controllo dell’ansia, quale ad esempio il training autogeno.
Conclusioni
La letteratura mondiale è concorde nel non attribuire pericolosità teratogenica agli antidepressivi in gravidanza: la loro assunzione quindi non determina aumento del rischio di malformazioni fetali.
Viene comunque riconosciuta la possibilità che possano manifestarsi nel bambino, anche se non frequentemente, alcuni sintomi quali tremori, brividi, ipoglicemia, ittero. Molto più raramente è stata anche segnalata la presenza di difficoltà respiratorie. Da sottolineare il fatto che tutti i sintomi hanno carattere transitorio e regrediscono spontaneamente.
Possiamo concludere affermando che l’assunzione di antidepressivi e/o ansiolitici durante la gravidanza pone problemi complessi e che la corretta valutazione rischi/benefici rende necessario che la donna si avvalga della consulenza del Medico di Medicina Generale, dello Psichiatra e del Ginecologo.
Depressione e menopausa
Climaterio e menopausa
Il climaterio è il periodo che va dall’ultimo ciclo regolare fino alla definitiva cessazione delle mestruazioni.
La menopausa si riferisce invece alla cessazione dei flussi mestruali ed attualmente si verifica intorno all’età media di 51 anni.
Durante il climaterio spesso compaiono sintomi di vario genere come irregolarità mestruali, tensione premestruale, irritabilità, ansia, tristezza, vampate di calore, disturbi del sonno. Tali sintomi, nel loro insieme, costituiscono la “Sindrome climaterica” che varia da donna a donna ed è caratterizzata dalla riduzione dell’attività delle ovaie, dalle alterazioni della produzione di ormoni e della risposta degli organi bersaglio (apparato genitale, scheletrico, cardiovascolare, cutaneo, urinario). La sindrome è influenzata da fattori socio-culturali relativi alle condizioni ambientali in cui vive la donna e da fattori psicologici relativi alle caratteristiche della personalità individuale.
Fattori biologici
In una menopausa naturale la produzione ormonale delle ovaie declina progressivamente già nei cinque anni che la precedono.
Può anche essere indotta da somministrazione di farmaci antitumorali o da radiazioni ionizzanti, anche se la causa di gran lunga più frequente è l’asportazione chirurgica delle ovaie.
La brusca riduzione degli estrogeni può causare un rapido e precoce depauperamento osseo, responsabile della osteoporosi.
Fattori socioculturali
Il significato sociale della menopausa differisce nelle diverse culture.
In alcune tribù dell’Africa, nelle donne della classe Rahjput dell’India e in alcune popolazioni arabe la menopausa, liberando la donna dall’“impurità” dei flussi mestruali, le conferisce maggiore prestigio sociale. Può quindi socializzare liberamente anche con gli uomini, partecipare o essere protagonista di riti propiziatori, è esentata dai lavori pesanti e, in virtù dell’esperienza di vita acquisita, esercita ampi poteri sulla famiglia e sulla comunità.
A Formosa e in Giappone ancora oggi l’ingresso della donna nell’ultimo gruppo anagrafico, all’età di 61 anni, è celebrato con un festeggiamento e da quel momento le sue opinioni sono tenute in grande considerazione.
Nelle culture occidentali, negli ultimi decenni, la donna acquisisce la propria identità femminile, oltre che attraverso gli aspetti tradizionali della seduttività e della funzione materna, anche attraverso l’uso delle proprie capacità intellettive e ciò ha provocato uno sfasamento tra il ciclo biologico e quello sociale della vita. Le conseguenze più evidenti sono state il progressivo ritardo della prima maternità e lo spostamento della terza età di almeno vent’anni rispetto alla menopausa.
Fattori psicologici
Climaterio e menopausa s’inseriscono nel processo di modificazioni del ciclo vitale della donna e il vissuto prevalente è la perdita della fertilità e dell’avvenenza fisica.
Si può sostenere che non esiste un preciso rapporto tra determinati tratti di personalità e sindrome climaterica, ma piuttosto una complessiva “vulnerabilità psicologica” che predispone ad una risposta negativa alle variazioni ormonali.
La menopausa costituisce un momento di crisi che, analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la maternità, è caratterizzato da profondi cambiamenti interni ed esterni nelle diverse aree della realtà femminile.
Mentre la crisi adolescenziale e la maternità hanno significato evolutivo e creativo, la crisi climaterica è, invece, caratterizzata prevalentemente da elementi di perdita e di lutto che possono determinare la riduzione della fiducia di base.
Dalle trasformazioni ormonali e fisiche possono derivare fantasie svalutative conseguenti alla perdita della fertilità e a problematiche legate alla sessualità.
Le opinioni su di essa sono controverse, anche se è accertato che la menopausa ha scarsissima influenza sulla libido. A tal proposito è possibile individuare nella donna alcuni modelli d’identità che si ripercuotono sul comportamento sessuale in menopausa:
– un modello materno riproduttivo, che considera la sessualità prevalentemente finalizzata alla riproduzione per cui la menopausa può determinare la riduzione o l’interruzione dell’attività sessuale;
– un modello narcisistico, in cui la donna tende ad avere un’attività sessuale più intensa nel tentativo di negare il climaterio ed i problemi ad esso legati;
– un modello genitale maturo, in cui è presente la capacità di realizzare armonicamente l’identità femminile non solo nelle tradizionali funzioni materne, ma anche all’interno di una relazione affettiva e sessuale soddisfacente.
Anche la coppia viene coinvolta dai cambiamenti di questo periodo e, dopo avere adempiuto all’accudimento della prole, è chiamata a ricercare il “senso della convivenza” e a trovare un nuovo equilibrio.
Quadro clinico e problemi diagnostici
La menopausa si manifesta con modalità diverse in quanto ogni donna ha una reazione modulata dalle caratteristiche della propria personalità.
Il quadro clinico della sindrome menopausale è caratterizzato dallo squilibrio del sistema nervoso autonomo, da instabilità emotiva e dalle conseguenze delle modificazioni metaboliche. Durante la menopausa s’individuano disturbi a volte soggettivamente rilevanti quali ansia, irritabilità, fluttuazioni del tono dell’umore, ipocondria, insonnia. Il problema clinico più controverso è la presenza di una sindrome depressiva. Lo studio del sintomo “depressione”, nel contesto della sindrome menopausale, è limitato alle forme più lievi, che non raggiungono cioè la gravità e la complessità della sindrome depressiva di specifica pertinenza psichiatrica. I fattori causali sono di natura organica, funzionale ed ambientale e giocano un ruolo altrettanto importante i fattori psicologici. Elemento primario di rischio è la difficoltà della donna ad elaborare la ferita conseguente alla perdita della capacità procreativa, della seduttività e della bellezza.
I sintomi ansiosi, quando presenti, si manifestano con senso di oppressione interna oppure con sintomi ricorrenti quali l’insonnia, la fobia dei luoghi chiusi o aperti, la paura di allontanarsi troppo da casa, l’impulso incontrollato ad assumere cibo.
In conclusione, anche se non esiste una sindrome psichiatrica specifica della menopausa, tale periodo costituisce una tappa di particolare importanza per l’equilibrio affettivo e istintuale della donna e può facilitare la comparsa o la riattivazione di difficoltà personali del passato o di problematiche latenti.
Terapia
Nel climaterio e nella postmenopausa la terapia costituisce un problema ancora controverso, anche se la tendenza è interventista sia nei confronti dei disordini mestruali sia dei disturbi metabolici e psichici, allo scopo di migliorare la qualità di vita degli anni che la donna deve trascorrere in carenza d’estrogeni.
Gli orientamenti attuali consistono nella terapia ormonale sostitutiva e nell’utilizzo di farmaci ad azione sintomatica, anche se sussistono dubbi sui rischi relativi all’uso prolungato di estrogeni ad alte dosi.
Gli specialisti del settore sottolineano che la terapia sostitutiva ha azione di prevenzione nei confronti delle complicanze ossee e cardiovascolari.
I disturbi della serie ansiosa e depressiva, quando raggiungono gravità tale da interferire nella vita di relazione, affettiva e sociale, traggono giovamento dal trattamento con ansiolitici e antidepressivi, in particolare del gruppo SSRI. Tali trattamenti vanno messi in atto solo per qualche mese, il tempo necessario alla scomparsa dei sintomi.
La psicoterapia è utile quando il malessere si fonda sulla crisi dell’identità femminile per i vissuti di perdita o sull’attivazione di problematiche personali antiche che necessitano di un’elaborazione psicologica.
Depressione post-partum
Fattori di rischio
La nascita di un figlio costituisce un evento significativo per la coppia in quanto entrambi i partners devono adattarsi alla presenza del bambino e modificare i loro rapporti in funzione del figlio. La particolare attenzione che la madre rivolge al neonato nelle settimane successive al parto corrisponde ad uno stato mentale regressivo finalizzato ad adattarsi ai bisogni del bambino: possono, comunque, insorgere difficoltà nel rapporto di coppia quando il neo papà si sente affettivamente escluso dalla relazione madre-figlio. Inoltre alcuni sintomi quali irritabilità, stanchezza, perdita d’interessi e riduzione dei rapporti sociali, possono contribuire ad aumentare l’insoddisfazione coniugale e a facilitare la comparsa di vissuti di solitudine, di mancanza d’intimità, di sostegno pratico e affettivo da parte del coniuge.
Altro importante fattore di rischio è l’eventuale perdita di persone care durante la gravidanza: la reazione di lutto viene di solito inconsapevolmente rinviata dopo il parto per la difficoltà a vivere emotivamente la sovrapposizione di nascita e morte.
Altro gruppo di fattori di rischio è costituito dal rapporto conflittuale con la propria madre e dalla presenza di stress psicologici e sociali, quali ad esempio la mancanza di supporto nell’accudimento del bambino.
La presenza di tali problematiche può dare origine alla cosiddetta “depressione minore”, disturbo non invalidante che permette alla donna, sia pure con difficoltà, di svolgere la funzione materna, a differenza di quanto avviene nella psicosi puerperale.
Dopo la gravidanza possono anche svilupparsi le cosiddette “depressioni da svezzamento”, conseguenti alla difficoltà di tollerare la separazione quando la relazione duale col bambino deve fisiologicamente interrompersi.
E’ stato inoltre provato che il numero dei parti, l’età della donna, la mancata programmazione della gravidanza e la presenza di complicazioni ostetriche durante la gravidanza o al momento del parto non determinano l’aumento di rischio di ammalarsi di depressione puerperale.
Invece la morte del bambino e la presenza di eventi traumatici nel corso dell’ultimo anno provocano l’aumento del rischio, a conferma del rapporto tra depressione ed eventi di perdita.
Per quanto riguarda il ruolo dei fattori biologici, sono due le ipotesi prevalenti: secondo la prima, la depressione puerperale è in tutto simile alla depressione degli altri periodi della vita; la seconda, invece, sostiene che la depressione puerperale sia conseguente alle variazioni degli ormoni (estrogeni, progesterone e prolattina) che si verificano nelle prime due settimane dopo il parto.
Quadri clinici
Dal punto di vista clinico la depressione post-partum comprende tre quadri diversi: il maternity blues, la depressione minore (nevrotica, lieve, atipica) e la depressione maggiore. La loro frequenza è la seguente: 50-70% per il maternity blues, 10-15% per la depressione minore, 3-6% per la depressione maggiore.
Maternity Blues
Si tratta di una sindrome caratterizzata da facilità al pianto, che ne costituisce il sintomo centrale, astenia, orientamento depressivo dell’umore, ansia, irritabilità, cefalea, diminuzione della capacità di concentrazione e difficoltà nel pensiero concettuale fino ad un leggero stato confusionale. La sua frequenza è particolarmente elevata: si oscilla, nelle diverse casistiche, dal 50% al 70% delle donne che hanno partorito. La sintomatologia si manifesta in corrispondenza del 3°- 4° giorno dopo il parto ed ha durata di circa una settimana, entro la quale si risolve completamente.
In alcuni casi, però, può evolvere verso una sintomatologia più marcata e duratura oppure verso un quadro depressivo vero e proprio oppure ancora verso una rapida trasformazione nella psicosi puerperale.
Tenendo conto della sua grande frequenza, la sindrome del “maternity blues” può essere considerata una reazione fisiologica, anche se la modesta gravità del quadro non deve portare a sottovalutarla. Infatti la sua importanza risiede nel fatto che costituisce una sorta di ponte tra normalità e psicopatologia puerperale dal momento che comprende, sia pure in forma minore, molti dei sintomi e delle problematiche caratteristiche della patologia puerperale maggiore.
L’ipotesi prevalente per spiegare l’origine di tale sindrome è legata alle variazioni ormonali presenti nell’organismo femminile in tale periodo.
Nel determinare il maternity blues è anche importante l’atteggiamento psicologico della donna nei confronti della maternità. Nei giorni immediatamente successivi al parto, infatti, le angosce di separazione e di perdita sono vissute intensamente, il tono dell’umore della donna è mutevole ed è presente l’incertezza relativa alle proprie capacità materne non ancora sperimentate. Perciò tale periodo può essere considerato una sorta di “tempo di latenza” affettivo per realizzare la rottura del legame fusionale col feto ed iniziare la relazione col bambino reale e i suoi bisogni.
Depressione Minore
La sintomatologia di questa forma comprende una depressione dell’umore associata a sensazione di esaurimento fisico, più evidente nelle ore serali, irritabilità, diminuzione dell’appetito, riduzione del desiderio sessuale, insonnia e sintomi somatici di varia natura. Tale quadro è praticamente sovrapponibile al Disturbo Distimico del DSM-IV. Spesso sono presenti anche altri disturbi: l’ansia nella forma acuta del panico e in quella somatizzata, la manifestazione fobica (spesso agorafobica) e le manifestazioni ossessivo-compulsive, in forma di comportamenti compulsivi tendenti alla ricerca del perfezionismo nell’accudimento del bambino o di sintomi ossessivi veri e propri.
L’aspetto più tipico è l’insicurezza relativa al ruolo materno, vissuto in modo conflittuale e colpevolizzante, che può tradursi in un’eccessiva preoccupazione per il bambino o in un’ostilità nei suoi confronti più o meno manifesta.
In questo tipo di depressione è spesso presente la continua pretesa di sostegno e rassicurazione, che trova di solito accoglimento nell’ambito familiare e nei medici curanti. Essi, infatti, non hanno difficoltà a giustificare l’irritabilità e la stanchezza di una donna che ha appena partorito e che sta allattando. Spesso si fa ricorso a supporti terapeutici tradizionalmente usati nella medicina di base quali consigli dietetici, prescrizioni sintomatiche, fornendo al tempo stesso un sostegno psicologico che in buona parte dei casi è sufficiente ad evitare l’intervento dello psichiatra.
Questa forma, infatti, è poco conosciuta dagli specialisti proprio perché non è invalidante e non richiede trattamento specifico, se non in casi di particolare gravità. La sua evoluzione prevede varie possibilità:
– può risolversi in media entro sei mesi;
– può presentare recidive successive;
– può cronicizzarsi trasformandosi in uno stile di vita nevrotico, spesso con aspetti fobici e ossessivi.
La depressione puerperale ha la massima frequenza da tre a sei mesi dopo il parto, con segnalazione di casi anche fino ai nove. Probabilmente i casi osservati tardivamente corrispondono a forme depressive cosiddette da svezzamento che segnano il primo significativo distacco nella relazione madre-bambino.
Può essere difficile distinguere la depressione insorta durante la gravidanza e che si protrae anche nel puerperio, da quella che si manifesta nel corso del puerperio. In realtà non c’è concordanza di opinioni, dal momento che alcuni Autori le considerano forme diverse, mentre altri ritengono che la presenza di ansia e depressione in gravidanza costituisca un fattore predisponente alla depressione post-partum.
Depressione Maggiore
La sintomatologia della Depressione Maggiore appare più grave e persistente rispetto a quella minore, può avere un esordio acuto e presenta i sintomi dell’episodio depressivo maggiore descritti nel DSM-IV, con la caratteristica che la maternità e l’accudimento del bambino costituiscono il contenuto della maggior parte dei vissuti e dei deliri depressivi. Le pazienti, infatti, possono manifestare sentimenti eccessivi e perfino deliranti d’inutilità e autoaccusa, accompagnati da agitazione o rallentamento motorio. Spesso temono di danneggiare i propri figli, di essere causa di malattia per il loro inefficace accudimento o possono convincersi che i loro bambini non siano sani, nonostante le smentite del pediatra o del medico curante.
Le idee di suicidio sono ricorrenti e bisogna tenere presente che il rischio è elevato.
L’insorgenza della depressione maggiore è più precoce rispetto alla forma minore, di solito nel corso del primo mese successivo al parto, con una maggiore frequenza nella prima settimana.
Psicosi puerperali
Il rischio di psicosi puerperale è più alto nelle primipare, anche se può manifestarsi in gravidanze successive, e la presenza di disturbi psichici nella storia personale della donna è un importante fattore di rischio.
La presenza di una precedente psicosi puerperale aumenta il rischio di recidiva, tanto da giustificare un attento monitoraggio delle condizioni psichiche durante la gravidanza e dopo il parto.
Secondo alcuni autori stress psicosociali come la condizione non coniugale, il parto cesareo o la morte del feto costituiscono un fattore di rischio, mentre la presenza di eventi traumatici nel corso dell’anno precedente il parto, lo scarso supporto ambientale, la situazione conflittuale con il partner, il sesso del bambino o l’età della madre non sembrano aumentare la possibilità d’insorgenza della psicosi.
Per quanto riguarda i fattori biologici implicati nella patogenesi delle psicosi puerperali, le conoscenze sono ancora relativamente scarse e controverse. Sembra però plausibile sostenere che tale patologia sia almeno in parte biologicamente mediata e che un possibile meccanismo sia la ipersensibilità alla dopamina, causata dalla rapida caduta degli estrogeni.
L’esordio dei sintomi è acuto, il più delle volte entro le prime due settimane dal parto e coesistono sintomi affettivi (mania, depressione e stati misti) con deliri, allucinazioni, incoerenza, disorganizzazione del comportamento, disorientamento e confusione mentale. I contenuti dei deliri sono relativi all’esperienza materna e riguardano la vita e la salute del bambino, che la madre ritiene compromesse spesso per causa sua. Possono anche essere riferiti all’appartenenza del neonato: in questo caso che la donna ha il convincimento che sia stato scambiato con un altro bambino non suo.
A volte sono presenti anche deliri di negazione dell’esistenza del figlio e della maternità.
La durata della malattia varia da un paio di mesi fino ad un massimo di sette-otto.
La prognosi è generalmente buona: le psicosi puerperali sono ben curabili e hanno esito migliore rispetto alle altre forme di psicosi.
Terapia
Nel maternity blues abitualmente non si rende necessaria alcuna terapia specifica, ma è sufficiente un sostegno psicologico da parte delle figure presenti nella fase immediatamente successiva al parto, quali il ginecologo e/o l’ostetrica.
Se la componente ansiosa è molto accentuata, si possono utilizzare benzodiazepine in modo intermittente. L’uso continuativo è, invece, controindicato durante l’allattamento per gli effetti indesiderati nel neonato quali sonnolenza, letargia e perdita di peso.
Nella depressione minore può essere importante un sostegno psicologico, spesso fornito dal medico curante dal momento che lo psichiatra non viene a contatto con la maggior parte di questi casi.
In una prospettiva di prevenzione è importante realizzare, all’interno dei corsi di preparazione al parto, un intervento informativo e di chiarificazione rivolto a tutte le donne che li frequentano, indipendentemente dalla valutazione dei fattori di vulnerabilità individuale. La gestione delle psicosi puerperali richiede interventi medici, psicologici e di assistenza articolati secondo il quadro clinico e la gravità dei sintomi. Nelle forme più gravi si rende necessario il ricovero in ambiente psichiatrico, finalizzato ad ottenere la sedazione dello stato di agitazione psicomotoria e garantire nutrizione e idratazione adeguate. Il trattamento neurolettico riduce inizialmente l’angoscia ed entro pochi giorni agisce anche sui deliri e sulle allucinazioni.
La necessità del trattamento farmacologico pone il problema dell’allattamento al seno. Se la paziente è seguita ambulatoriamente, la tendenza attuale è di mantenerlo. In tal caso la scelta dei farmaci da usare è particolarmente importante. Gli antidepressivi IMAO sono incompatibili. Gli antidepressivi triciclici, gli SSRI e i neurolettici, invece, consentono l’allattamento se utilizzati a dosaggio basso.
Naturalmente il bambino deve essere seguito: se appare sonnolento, se non piange o non succhia energicamente l’allattamento va interrotto.
La necessità di ospedalizzare la donna comporta l’interruzione anche prolungata del rapporto col bambino. Tale evenienza può avere conseguenze negative per la madre, alla quale viene a mancare l’elemento di realtà rappresentato dalla presenza del neonato, e anche per il bambino, deprivato della relazione con la madre. Il problema è stato affrontato operativamente a partire dagli anni ‘60 con la realizzazione delle cosiddette Comunità madre-bambino. Si tratta di strutture residenziali in cui sono ricoverati la madre e il bambino per tutto il tempo richiesto dalla gravità della patologia materna, in modo da consentire alla madre, assistita da personale specializzato, di occuparsi direttamente del figlio.
Tale condotta terapeutica favorisce il superamento della crisi puerperale, consente di intervenire terapeuticamente sulla relazione madre-bambino e di formulare progetti d’intervento a lunga scadenza. Le strutture residenziali sono utilizzate nei casi di maggiore gravità, mentre per le forme più lievi è previsto un intervento a livello ambulatoriale fondato sugli stessi presupposti.
Privilegiare la relazione madre bambino durante un ricovero ospedaliero può essere già considerato un intervento di tipo psicoterapeutico, anche se non strutturato.
L’indicazione di una psicoterapia strutturata si rende necessaria nei casi di depressione conseguenti a conflitti intrapsichici. Anche nelle psicosi puerperali, oltre alle terapie biologiche, può essere utile il trattamento psicoterapeutico, allo scopo di elaborare gli elementi che hanno sostenuto e caratterizzato la crisi. Gli interventi psicologici utilizzati per la patologia puerperale comprendono il counseling, i self-help groups per le donne e per i loro familiari, le terapie di gruppo, le terapie familiari o di coppia, la psicoterapia individuale ad indirizzo analitico o cognitivo-comportamentale.