Francesco racconta la sua storia…
Ho perso la mamma quando non avevo neanche tre mesi e da bambino dopo la prima elementare mio papà non mi mandò più a scuola. La licenza di terza e quinta elementare l’ho conseguite di sera, all’età di 16 e 19 anni, la prima media a 20 anni, la seconda e la licenza di terza media inferiore a 23 e 24 anni, dopo aver fatto il servizio militare di leva.
Per ironia della sorte questo è capitato proprio a me che ho sempre desiderato leggere e scrivere, così ho dovuto farlo come meglio potevo nei pochi momenti liberi che il lavoro prima e la famiglia dopo, mi permisero di avere.
Con il passare degli anni, vista la mancanza di tempo che avevo per coltivare questo mio desiderio, ho finito per rimuoverlo dalla mia coscienza e per lungo tempo non ci pensai più. Ormai nella mia testa c’era soltanto la famiglia ed lavoro e mai avrei pensato che un giorno sarei stato capace di scrivere il libro, Profumo Di Gelsomini!
Certo ne vado fiero, eppure non sono ancora contento e forse morirò “con il rimpianto” di non essere riuscito a scrivere un best seller di qualità; non uno di quei libri di consumo che si scrivono ad hoc in modo da incantare subito molto pubblico per poi sparire nel nulla.
Mi rendo conto che lo sto dicendo come se si trattasse di una cosa da niente e che in molti si faranno una bella risata sarcastica se lo leggeranno. Non so come dargli torto, capisco che detto da me può sembrare che sia un po’ da presuntuoso; ma io sono veramente convinto di avere le potenzialità per riuscirci, il difficile è riuscire a sprigionarle.
Purtroppo ho ancora alcune incertezze sull’utilizzo della punteggiatura, della grammatica, dei verbi, della lingua italiana in generale e questo altro non fa che complicare ancora di più il mio compito.
So che ci sono molte regole linguistiche da rispettare, mentre io scrivo a “cappella” e come se non bastasse sono pure geloso di ciò che scrivo e non mi piace che qualcun altro lo riveda e lo snaturi per esigenze linguistiche ed ancora peggio, per interessi editoriali!
Sono disposto sì, ad accettare consigli utili ed una leale collaborazione, a condizione però che poi sia io a decidere come colmare eventuali lacune, sulla base dei suggerimenti ricevuti. Ma con l’unico scopo di migliorarne la qualità, non per vendere molte copie.
Scrivere un libro di successo non dev’essere il mio obiettivo, ma la conseguenza della sua bellezza. Però perché ci sia una casa editrice seria che mi prenda in considerazione so che dovrei essere capace di superarmi ulteriormente.
Avevo pensato d’iscrivermi all’università della terza età, per imparare almeno un po’ di regole della lingua italiana, ma quando ho capito di non avere tempo per frequentare mi è passato il piacere. Io non provo interesse per le cose che non mi riesce di fare con impegno.
Ho letto decine di libri e da ciascuno dei rispettivi autori ho imparato qualcosa, ma rimango sempre fedele al mio modo di esprimermi e quando mi dicono che il mio stile di scrittura somiglia a questo o a quest’altro mi “offendo”, io sono io, punto e non intendo ispirarmi e somigliare a nessun’altro! Mi piace giocare con le parole, perché ci sono un’infinità di modi per combinarle e quando riesco a metterne insieme un certo numero che sappiano esprimere un bel concetto, un nobile sentimento, un po’ di poesia, mi sento felice.
Non so se riuscirò mai a scrivere il libro che vorrei. Intanto per continuare ad esercitarmi, mi diverto a scrivere alcuni racconti amatoriali, in ordine voluto e senza pretese. Certo il tempo che scorre veloce non gioca a mio favore: l’importante è che non smetta di sognare!
Lettera a Salvatore
Era da tanto tempo che desideravo scrivere una lettera a Salvatore, ma il mio rapporto con i dottori fino ad una età avanzata è sempre stato conflittuale, come conflittuale è sempre stato il mio rapporto con gli ospedali, con le persone che parlavano di alcune malattie e con quelle che queste malattie le avevano contratte!
Quando sentivo parlare di alcune malattie cercavo di evitare di ascoltare perché ero talmente suggestionabile che pochi minuti dopo me li sentivo addosso. La prima volta che lessi un articolo sull’AIDS nonostante fossi sposato, sia pure per breve tempo evitai di fare sesso, inventando stupide scuse per giustificarmi.
Per non parlare poi del mio rapporto con i cimiteri, i morti e tutte le fotografie che ritraevano persone defunte, ero terrorizzato solo al pensiero di dover passare davanti ad un cimitero e non sfogliavo un album fotografico per paura di trovarci la fotografia di una persona defunta e ancora peggio, quella di mia mamma: dopo aver fatto la brutta esperienza di due attacchi di panico è la paura di aver paura che ci frega e ci condiziona.
Da bambino ho vissuto la mancanza della mamma come un abbandono, le zie, sorelle di mio papà mi portavano da lei al cimitero e cercavano di spiegarmi la sua morte con frasi tipo: «Tua mamma è volata in paradiso, il Signore l’ha voluta con Sé, adesso è il tuo angelo custode». Ma le loro spiegazioni mi creavano soltanto confusione e angoscia.
Già capire lo scopo della nostra esistenza, il perché della vita e della morte, è impossibile per gli adulti, lascio immaginare quali turbamenti può creare nella mente di un bambino! Non mi piaceva proprio andare al camposanto, perché ogni volta che vi andavamo leggevo la commozione negli occhi delle zie e provavo, sempre di più, una sgradevole e triste sensazione di sconforto.
Contemplavo la fotografia di quella ragazza di ventidue anni, che stava al centro della lapide, come se volessi che si materializzasse: «È tua mamma, vedi quanto era bella?» Mi dicevano zia Maria, sorella minore e madrina sorella maggiore, di mio papà. Ma non avendola mai avuta accanto non capivo nemmeno cosa volesse dire mamma.
A volte le zie, un po’ di nascosto, si asciugavano le lacrime, io intuivo che piangevano e anche se non mi rendevo conto del perché cercavo di farlo anch’io, ma niente! Non ci riuscivo, non capivo perché mai avrei dovuto farlo. Che il loro dolore dipendesse dalla mia grave perdita ancora non me ne rendevo conto.
Ben presto cominciai a detestare quei luoghi impressionanti dove molte persone venivano murate per sempre in un buco e per anni li evitai meticolosamente. Quando mi chiedevano di mia mamma avvertivo un senso di disagio e rispondevo: «Mia mamma è mancata». Non riuscivo a dire: «Mia mamma è morta!»
Da ragazzino, quando finalmente realizzai di essere orfano cominciai a odiarla mia mamma, perché mi aveva negato il suo amore per starsene bella, bella, in paradiso ed io non sapevo che farmene di un angelo custode a così indefinita distanza. Il paradiso mica si trova al numero civico di una determinata località!
Cosa poteva esserci di così grandioso in paradiso da superare l’amore per un figlio e le meraviglie della terra? Pensavo: «Sulla terra c’è il mare, le montagne, le stelle, le farfalle e i fiori di svariati colori, gli animali, l’alba il tramonto e si vede la luna, ma forse mia mamma non avrà avuto tempo per riflettere su quanto di straordinario c’è in tutto questo».
In seguito il mio rancore si manifestò anche verso “Quel Signore”, tanto misericordioso, che si prendeva le mamme degli altri bambini, non mi sembrava tanto lodevole: «Perché la Sua non Gli bastava?» Mi domandavo ingenuamente.
La mamma è la prima donna dalla quale un bambino può imparare ad amare anche le altre e in assenza tutto diventa complicato. Mi mancavano i suoi abbracci, i suoi baci, le sue tenerezze. Tanto erano radicati i pregiudizi, all’epoca in Sicilia, che le zie non lo facevano, così ricevere e ricambiare l’amore di una donna mi sembrava una cosa di cui vergognarsi!
Perciò a differenza di tanti ragazzi che si vantavano di essere stati non so con quante donne, io devo ammettere di essere stato a dir poco impacciato. C’ho dovuto mettere molto impegno per superare il conflitto di amore ed odio che avevo con mia mamma e per riuscire ad avere finalmente un rapporto disinvolto e cordiale con le donne. E siccome non sono mai stato insensibile al fascino femminile, necessariamente dovetti darmi una svegliata!
Avevo molte paure ma non osavo confessarle, tutti mi dicevano che ero un ometto ed io cercavo di non deluderli. In ogni caso preferivo evitare il rischio di vedermi negare una richiesta d’affetto, era meno penoso illudermi che fossi io a non averne bisogno che sentirmi dire, un po’ da tutti i miei familiari: «Ca io chi ti pozzu fari figghiu miu?»
Così oltre al danno alcune volte subivo anche la beffa; come quel giorno in cui zia Maria, che di acciacchi ne aveva davvero tanti, mi disse: «Beato te che stai sempre bene, figlio mio!» Come facevo a dirle che non era come pensava?
Convenni che non era il caso di darle un altro dispiacere. Intanto a furia di pensarla così andò a finire che ero sempre io a preoccuparmi per gli altri, anche se non mi sarebbe dispiaciuto che almeno una volta succedesse il contrario.
Sarebbe stato bello sentirsi dire: «Stai bene? Hai qualche problema? Posso fare qualcosa per aiutarti?» Ma detto con il cuore però, non tanto per dire, macché! Niente di niente. Ma io avevo qualche motivo per lamentarmi? Forse sì, ma se non ho mai fatto la vittima come potevo pretendere che loro lo capissero da soli?
Non è corretto dire che non ho mai fatto la vittima, e che avendo avuto diverse esperienze di rifiuto del bisogno di affetto percepivo le figure di accudimento come persone alle quali non chiedere mai niente, in quanto inaffidabili e quindi mettevo in atto un comportamento improntato alla falsa autonomia.
Ma questa per tutti loro era una cosa difficilissima da capire, non diciamo fesserie! Francamente sarebbe stato chiedere troppo. Per loro è stato più semplice lasciare intendere che non si preoccupavano di me, perché io non mi lamentavo e quindi voleva dire che stavo bene così.
Poi giustamente zia Maria si sposò, ebbe due figli e così mi dovetti rassegnare, perché neanche lei che mi aveva cresciuto poteva essere “mia mamma”. Eppure mi aveva sempre detto che per lei ero come un figlio.
Cosa facevo mi prendevo anch’io la mamma dei miei cugini? Non avevo mica i poteri soprannaturali del Signore io! E poi il Signore l’avrebbe portata in paradiso e sarebbe stata felice e beata per sempre. Io invece ero talmente egoista da sperare che non si sposasse e continuasse a prendersi cura di me!
Quando è morta zia Giovanna, seconda sorella di mio papà, ero ragazzino e non volli vederla, tanto ero turbato dal conflitto di amore ed odio che avevo anche nei suoi confronti. Si era sposata con un palermitano ed era andata ad abitare a Palermo così, proprio lei che non aveva figli e più delle altre zie aveva l’attitudine per farlo, non si era presa cura di me. Che inseguire i suoi sogni di felicità fosse un suo diritto, proprio non riuscivo a capirlo!
Un giorno (eravamo alla fine di un mese di vacanze trascorse con lei e suo marito Bartolo a Palermo, durante il quale mi avevano viziato a più non posso) mi chiese: «Mi vuoi bene?» Ed io le risposi: «Le voglio bene adesso che sono qui, ma quando torno a Casteldaccia voglio bene solo a zia Maria».
«Bella riconoscenza che hai» mi disse lei ironicamente, ma i bambini non capiscono l’ironia ed il senso di colpa che provai per quella frase che le avevo detto si manifestò anche nel momento in cui da morta non volli vederla.
Solo alla morte di mio papà avrei imparato a non fuggire da una camera ardente: rimasi tutta la notte accanto a lui e in alcune ore, anche da solo! Imparai di colpo che i morti fanno meno paura di tanti vivi… Cosa mi successe, un miracolo?
Mi successe semplicemente che ormai avevamo un rapporto amichevole e mi sono sparite tutte le paure perché con lui non avevo più né conflitto di amore ed odio, né rancore, né sensi di colpa.
Lo stesso feci quando morì zia Maria che, per quanto poté, non smise mai di darmi tutto l’affetto che può dare una zia e segretamente, per non ingelosire i miei cugini e le altre zie, continuai a guardarla come una mamma. Era l’unica zia alla quale davo del tu.
Quando, un paio d’anni prima, era morta mia sorella invece ero stato meno disinvolto, con i suoi continui piagnistei era riuscita ad attirare tutte le attenzioni su di se e questo ci aveva impedito d’instaurare un rapporto completamente amichevole, però non ero fuggito, a conferma che ormai avevo imparato a riconoscere e regolare il conflitto tra amore ed odio.
Ma per capire il perché di tutti i miei disaggi dovetti rimandare al giorno in cui lessi il seguente argomento sulla Costruzione e Rottura dei Legami Affettivi:
«Bowlby nel 1956 viene invitato al centenario della nascita di Freud ad una conferenza sulla psicoanalisi e le cure infantili. Freud ha portato alla luce grandi verità nella sua carriera, ha affermato per prima cosa che le radici del nostro comportamento sono da ricercarsi nell’infanzia e nei primi anni di vita. Freud incontra molte difficoltà, alcuni psichiatri nel 1950 affermano che non ci sono basi scientifiche per sostenere che i processi della prima infanzia incidono sulla salute mentale dell’uomo.
Ora molte riviste note riprendono il concetto di Freud, un bambino infelice sarà un grande nevrotico sottolineando l’importanza nella sua crescita. Il bambino dovrebbe ricevere cure regolari sempre dalla stessa persona. Le influenze che formano di più l’individuo sono quelle sperimentate nella prima infanzia.
Donald Winnicot ha trattato il problema del senso di colpa e la capacità di vivere questo, in modo normale. Il senso di colpa fa parte di ogni essere umano, ogni soggetto è portato ad arrabbiarsi anche con le persone che tiene di più al mondo. Il bambino dovrebbe essere educato a regolare il conflitto tra amore ed odio.
Freud ci parla di questo tema dell’ambivalenza partendo dai sogni, spesso l’individuo sogna la morte di un parente caro perché inconsciamente la desidera, questo accade perché nei primi anni di vita il piccolo prova sentimenti ambivalenti di amore ed odio sia per le figure genitoriali sia per i fratelli.
Secondo Freud gli istinti sessuali e quelli dell’Io originano l’odio e l’amore, quest’odio e amore può essere dovuto alla non fusione degl’istinti di vita e quelli di morte.
La paura e il senso di colpa che sono al vertice di questi conflitti possono dar luogo a disturbi psicologici se non si riesce a risolverli.
Le tappe per le quali passa il bambino per giungere a regolare la propria ambivalenza tra istinti di amore ed odio sono importanti per lo sviluppo della sua personalità. Se questo sviluppo sarà positivo il piccolo riconoscerà che in lui esistono impulsi contraddittori – amore ed odio – che sarà in grado di digerire, controllare e l’angoscia che ne deriverà sarà molto più sopportabile.
Uno sviluppo non positivo porterà il soggetto ad essere sopraffatto dagli impulsi che non riuscirà a controllare e che faranno insorgere in lui una grande angoscia nei confronti della sicurezza di chi lo ama e inizierà a temere delle punizioni che crederà di meritarsi. (La paura della punizione può portare ad una maggiore aggressività oppure cercherà eterno conforto, questi circoli viziosi si creano perché il soggetto non riuscirà a gestire amore ed odio).
Il soggetto può inoltre usare espedienti psicologici che consistono nel reprimere una delle due parti del conflitto, o l’amore o l’odio, si nega così l’esistenza del conflitto.
Il conflitto, sottolinea Bowlby non è qualcosa di patologico ma fa parte di ognuno di noi, spesso dobbiamo prendere decisioni e rinunciare a cose altrettanto desiderate.
Ciò che rende difficile il conflitto è la vastità delle sue componenti.
Per l’educazione di un bambino è importante che ci si comporti in modo che nessuno dei due impulsi di amore ed odio diventino troppo forti. L’affetto dei genitori è un tratto fondamentale, con il loro amore fanno sì che il desiderio libidico e l’odio non cresceranno in maniera spropositata.
Se da parte dei genitori non ci sarà questa attenzione egli tenderà a cercare costantemente amore e ad odiare chi non si cura di lui. Bowlby ha studiato la separazione del bambino dalla propria madre analizzandone il fenomeno del conflitto che si crea.
La separazione dalla figura d’attaccamento sviluppa nel bambino un sentimento ambivalente d’amore ed odio verso di questa che lui stesso non riesce a gestire.
Quando un bambino mostra odio verso un genitore farglielo notare e accrescere il suo senso di colpa non può che peggiorare la situazione. Questo metodo fa controllare al soggetto i suoi impulsi negativi ma la conseguenza è l’infelicità. Anche la punizione può dare lo stesso effetto portando il bambino a far accrescere la sua aggressività e a diventare un potenziale delinquente.
Non è detto con questo che il bambino può fare ciò che vuole ma compito del genitore è quello di proporsi verso di lui in modo amichevole senza usare punizioni (perché generano angoscia e rancore). Il terrore non serve a nulla, il bambino non appena il genitore sarà assente ripeterà la stessa azione che poco prima gli era stata proibita».
Dopo aver letto questo argomento mi successe che cambiai livello di coscienza troppo bruscamente e ce voluto un po’ di tempo per metabolizzare il tutto. Che fin da bambino dovetti affrontare molti problemi lo sapevo, però che fossero tanto gravi lo ignoravo. Anche perché per garantirmi un’esistenza meno penosa avevo rimosso tutte le mie esperienze negative e mi ero costruito un mondo tutto mio, infarcito di espedienti psicologici.
Ora finalmente ero cosciente di aver bisogno di un supporto psicologico e senza esitare sfruttai la sofferenza come spinta al cambiamento; così, alla tenera età di 65 anni, decisi di affrontare un lungo, faticoso e impegnativo percorso psicoterapeutico, senza il quale non avrei mai potuto leggere altri argomenti simili e comunque, né li avrei digeriti, né tanto meno avrei potuto descriverli.
adesso che mi sono schiarito maggiormente le idee, sto imparando ad essere meno esigente e più tollerante con me stesso, perché ho imparato che non ero colpevole di essere poco disinvolto, ma vittima di circostanze sfortunate!
Alla luce di questi ulteriori apprendimenti non posso esimermi dal fare un’importante considerazione: i miei cari erano tutte brave persone, ma figuriamoci se a quei tempi avevano le conoscenze per mettere in pratica tutte queste teorie. Tanto più che mio papà, con la sua licenza di terza elementare, era il più istruito di tutti. Quindi sarei stato spacciato e senza speranza fin dai primi vagiti?
Certamente sarebbe stata la conseguenza più naturale perché il percorso per non perdermi lungo la strada è stato tutt’altro che semplice. A me però piacciono le sfide impossibili e paradossalmente proprio perché il compito che mi aspettava era difficile, mi affascinava e lo trovavo stimolante.
Ho passato momenti tutt’altro che piacevoli, ma durante la nostra vita non ci restano che due alternative: fermarsi o andare avanti ed io non ho mai pensato di mollare, avevo un progetto ambizioso da realizzare: se sarei stato capace di non smarrirmi negl’intricati meandri dell’autocommiserazione, avrei raggiunto un traguardo lusinghiero!
Il paradosso è che quando ci ammaliamo siamo disposti a tutto pur di guarire. Grazie al nostro istinto di sopravvivenza, consultiamo medici specialisti, attendiamo con apprensione l’esito di analisi ed esami, affrontiamo cure talvolta dolorosissime, preghiamo, facciamo decine di scongiuri, ma tutto questo serve solo a rimandare l’appuntamento con la morte.
Perché al momento (un giorno magari sarà diverso) niente e nessuno può impedire che ciò avvenga! La morte è infallibile, non so che metodo usa, di alcuni se ne ricorda prima, di altri se ne ricorda dopo, ma è certo che non dimentica nessuno.
Tornando al mio rapporto con i dottori, oserei dire che non mi ammalavo per non andare dalla nostra Dottoressa di base. L’ultima volta che ci sono andato, per un banale problema, mi disse: «Lei ha una soglia del dolore talmente alta che non riesco a capire se sta sempre bene o se invece si tiene il male e non si lamenta mai».
E siccome i miei malesseri riguardavano la mia anima più che il mio corpo, le risposi: «Per fortuna sono vere entrambe le cose». Ma non fu ancora contenta e continuò: «Ricorda l’ultima volta che ha fatto le analisi del sangue e quelle dell’urina?»
«Sì, è stato circa trent’anni fa, quando sono stato operato di appendicite».
«Circa trent’anni fa? Faccia per favore tutte queste analisi del sangue, dell’urina e questa ecografia addominale completa che le prescrivo, alla sua età è assurdo che non abbia ancora fatto neanche un esame per controllare la prostata!»
«Se lei pensa che sia necessario la faccio contenta».
«Non deve fare contenta me, deve farlo per il suo bene!»
«Già, ma se poi risulta che qualcosa non va? Non è meglio adesso che sono tranquillo?»
«Non scherzi su questi argomenti, per piacere!»
Ora si capisce che di fronte ad una richiesta tanto perentoria non ho potuto fare altro che eseguire gli “ordini”, per fortuna l’esito di tutti gli accertamenti è stato confortante e così è rimasta contenta lei e a maggior ragione io naturalmente.
Il valore del PSA totale, che preoccupava di più, era di 1,71 e dato che nei valori di riferimento avevo letto: mg/dl 0.0 – 4.0 ero ragionevolmente fiducioso che per alcuni anni potevo stare tranquillo. Tanto più che quando il PSA totale è < 4.0 il rapporto tra PSA free o libero e PSA totale (ratio) non viene preso neanche in considerazione e non sono necessari ulteriori accertamenti.
Fatte queste dovute premesse, anche se a Salvatore avevo spedito una copia del mio libro Profumo Di Gelsomini, non nascondo che provavo un certo imbarazzo a relazionarmi con lui e capirete da soli quanto mi dispiacesse: «Che mi succeda con gli altri dottori pazienza, ma perché anche con Salvatore?» Mi domandavo.
E poi ancora: «Lo conosco da una vita, la macelleria dei suoi genitori, per i quali lavoravo era anche la loro abitazione per cui si può dire che abitai a casa sua per tre anni, ricordo ancora quando sua mamma l’aiutava a fare i compiti scolastici ed io l’osservavo con un pizzico d’innocente “invidia”».
«Invidia? aspetta un momento, Mah… non è che la causa del mio disagio è proprio questa?» Pensai nello stesso momento in cui facevo questo ragionamento. «Lui aveva la mamma, poteva andare a scuola, suo papà non era tanto povero quanto il mio, che nutra ancora un po’ di “gelosia” nei suoi confronti senza rendermene conto? Se così fosse ora che conosco la causa il mio disagio dovrebbe scomparire!» Ipotizzai.
Invece niente! Quindi doveva essere qualcos’altro di cui ancora non ero cosciente e perciò rimasi in attesa di qualche nuovo indizio che mi potesse aiutare a risolvere l’enigma. Lo spunto che cercavo non ci crederete ma, il giorno di Pasqua dopo che aveva letto il mio libro, me lo dette proprio lui con un suo messaggio augurale e di lode per ciò che avevo scritto nel libro.
Ero estremamente contento che mi avesse inviato un messaggio che non fosse di risposta ad uno mio precedente (con il quale mi promise anche che mi avrebbe invitato a cena per mangiare le tagliatelle fresche alla Norma) e allo stesso tempo dispiaciuto di trovarmi ancora in soggezione con lui: «Va bene che Salvatore è un oncologo,» stavo dicendo a me stesso, mah… «Un oncologo? Stai a vedere che…» Un flash illuminò la mia mente!
Salvatore è un oncologo e senza rendermene conto, “mantenevo le distanze da lui”, mi ero trincerato in una specie di autodifesa. Il problema quindi non era lui, era la sua professione, o meglio, stava nella mia testa che non accettava di “familiarizzare” con un male che purtroppo esiste e non possiamo ignorarlo.
In pratica nei suoi confronti avevo gli stessi pregiudizi che molte persone hanno nei confronti degli psicologi, per non dire degli psichiatri! Mi vergogno un po’ ad ammetterlo ma è così.
Ora che finalmente avevo capito il mistero ed ero libero da pensieri distorti ho potuto iniziare a socializzare con Salvatore e così gli ho scritto una lettera, anche per informarlo che ero felice di accettare il suo invito a cena per mangiare le tagliatelle fresche alla Norma.
Infine conclusi la lettera nel seguente modo: «Adesso devo terminare, caro Salvatore, altrimenti ti scrivo un “romanzo”, verrò in Sicilia il prossimo 6 Agosto 2014 con mia moglie e saremo a Casteldaccia dal giorno 22 al giorno 27.
Mi piacerebbe conoscere la tua famiglia e quelle delle tue sorelle Giovanna e Mimma, spero quindi che per quei giorni non abbiate impegni così potremo vederci. Mi auguro soltanto di non emozionarmi troppo, in ogni caso voi preparate un bel po’ di fazzoletti, non si sa mai che dovessero servire!»
Ritorno a Casteldaccia
Dall’ultima volta che c’ero ritornato erano passati circa quattro anni e con mia moglie, dopo aver trascorso le vacanze a San Vito Lo Capo, eravamo stati quattro giorni a Santa Caterina Villarmosa che è il suo paese natio e gli ultimi giorni a Casteldaccia il mio paese natio, prima di imbarcarci sulla nave che da Palermo ci avrebbe portato a Genova per tornare a San Mauro Torinese.
Questa volta al mio paese, come avevo promesso a Salvatore, ci siamo fermati quasi una settimana e questo mi permise di fare alcune riflessioni che ora provo a raccontare.
La Casteldaccia che lasciai oltre mezzo secolo fa non esiste più! Chiedo scusa, stavo per dire una fesseria quindi mi correggo. La Casteldaccia che lasciai oltre mezzo secolo fa esiste ancora, ma soltanto nei miei nostalgici ricordi e basta.
I ragazzi ai miei tempi eravamo umili, educati e ci adattavamo a fare qualsiasi lavoro pur di non essere di peso ai nostri genitori; anzi, eravamo fieri di poterli aiutare. Avevamo modi e comportamenti dignitosi; quando eravamo costretti a chiedere qualche lira arrossivamo e pur di non farlo eravamo capaci di privarci persino del necessario.
Non rivendicavamo sempre e soltanto diritti, capivamo di avere anche dei doveri e partecipavamo con impegno al benessere della nostra famiglia, perché pensavamo che se questa prosperava anche il nostro avvenire sarebbe stato meno incerto.
Nel nostro lavoro c’impegnavamo con dedizione perché come ho sempre pensato io, quello che imparavamo era di per sé un arricchimento personale che mai nessuno avrebbe potuto sottrarci. Un datore di lavoro può non riconoscerci lo stipendio che meritiamo, ma non potrà mai levarci quello che impariamo.
Ora la stragrande maggioranza dei ragazzi di Casteldaccia, a me che li osservavo con occhi freschi, sono sembrati menefreghisti e identici a molti loro coetanei che vivono in città. È vero che non hanno opportunità di lavoro e che le condizioni ambientali, logistiche e non solo, non l’incoraggiano a prendere iniziative, ma è anche vero che molti di loro “ci marciano su” che va bene.
D’altra parte l’insegnamento che ricevono dai mass media e dalle istituzioni non può che produrre risultati disastrosi. La televisione e gli altri mezzi di comunicazione propongono modelli al di fuori della realtà e i giovani sognano di arrivare proprio a quelli.
È inutile sbandierare che bisogna creare posti di lavoro per i giovani, a parte che il più delle volte sono parole di circostanza e di concreto non c’è quasi niente, ma siamo proprio sicuri che i giovani hanno tutta questa voglia di lavorare? E poi chissà perché certe persone pensino solo e soltanto di far lavorare gli altri.
Qualche volta potrebbero pensare di riuscire a creare posti di lavoro per se stessi e dare l’esempio! Sto scherzando o dico sul serio? Figuriamoci se succederà mai una cosa simile, il motto è sempre lo stesso: «Armiamoci e partite!»
I giovani, che stupidi non sono, diffidano da chi pensa di farli lavorare; lavorerebbero anche volentieri, però a condizione che ci sia qualcuno che gli dia il buon esempio con i fatti e non sempre e soltanto a parole.
E siccome questo non succede, loro si comportano come se tutto gli fosse dovuto. D’altra parte finché ci sono persone che passano le giornate nei vari salotti a fare chiacchiere inutili e si concedono tutto facilmente, non vedo perché i ragazzi dovrebbero sudare per avere si e no il necessario. Sono mica scemi!
Tanto più che per ognuno che ha voglia di lavorare ce ne sono almeno dieci che con le loro idee da burocrati gliela fanno passare. Viviamo in un mondo di cialtroni, dove tutti sanno cosa si sarebbe dovuto fare, cosa si dovrebbe fare e pochi fanno.
Si sprecano fiumi di parole, non c’è un politico, un opinionista, un tuttologo, che non abbia la ricetta giusta per guarire tutti i mali del mondo, ma i mali del mondo dipendono dalle persone ammalate di egoismo e siccome l’egoismo è una patologia inguaribile, si fanno solo e soltanto parole: …«Parole, parole, parole, parole soltanto parole»… dice una canzona di Mina. Bla bla bla, dico io.
Ed ecco che per molti giovani del mio paese un lavoro non c’è, uno è umiliante, uno è troppo pesante, uno è troppo sporco, un altro è mal remunerato, coltivare la campagna non rende niente, per lavorare la terra bisogna piegare la schiena e così non coltivano neanche un orticello per il proprio fabbisogno.
Come campano? Semplice, chiedono soldi continuamente ai loro genitori con una facilità disarmante e questi, ormai impotenti, cedono alle loro insistenti richieste. Così crescono fannulloni, opportunisti e poco inclini a fare qualche piccolo sacrificio per il loro avvenire.
Il bello è che siccome sanno destreggiarsi con un telefonino pensano di essere originali e innovativi, come se per campare bastasse sapere soltanto di Internet, Facebook, Youtube, WhatsApp e mi fermo qui.
Per le strade, mentre con mia moglie, andavamo in macchina molti ragazzi di ambo i sessi, in motorino, ci sfrecciavano da tutti i lati e ci passavano davanti con l’arroganza di chi pensa di essere onnipotente, non rispettavano il codice della strada, gli automobilisti e tantomeno i pedoni.
Sembra quasi che siano influenzati dai comportamenti di chi è peggio di loro e anziché dissociarsi da costoro e assumere una posizione di condanna, per assurdo cercano di emularli.
Alcuni figli di miei conoscenti dai quali siamo stati invitati a cena, ad un certo punto sono andati via senza salutare e per il resto della serata non li abbiamo più visti! Incredibilmente i loro genitori che chiaramente si sono sentiti a disagio, ci dissero: «Cosa vogliamo farci, sono ragazzi!»
Perché, i ragazzi possono avere il privilegio di non essere neanche educati? I nostri figli Andrea e Davide, non avrebbero fatto mai una cosa simile e ammesso che l’avessero fatta io non li avrei giustificati affatto!
Per essere sincero non ne abbiamo sentito la mancanza, perché quel po’ di tempo che sono rimasti a tavola l’hanno passato a smanettare sui telefonini ed erano quasi scocciati che i loro genitori ci dedicassero tante attenzioni: in fondo, dal loro futile punto di vista, non eravamo mica due celebrità! O forse la nostra presenza ostacolava, inconsapevolmente, i loro progetti di chiedere un po’ soldi ai propri genitori.
Sempre mentre andavamo in macchina ad un incrocio mi sono fermato per lasciar passare una signora con un bambino in braccio e due secondi dopo mi sono sentito strombazzare. Ho guardato attraverso lo specchietto retrovisore e ho visto ch’erano state due ragazze che stavano anche loro in macchina, dietro di noi. Da non credere!
Non posso negare che faceva molto caldo, però avevano scollature provocanti, e almeno questo, visto che come ho già detto, non sono insensibile al fascino femminile non l’ho trovavo poi tanto sgradevole; ma tenevano i finestrini dell’auto spalancati, la radio a tutto volume, tanto per intenderci diciamo a 100 decibel se non di più, roba da inquinamento acustico, fumavano come turchi e avevano modi strafottenti e insofferenti!
Era un giorno festivo e in ogni caso non avevano l’aria di ragazze che lavoravano e mentre cercavo di capire cos’avessero da fare di tanto urgente quella che stava alla guida (l’altra aveva il cellulare all’orecchio, le gambe distese e i piedi sul cruscotto) mi ha subito apostrofato: «Ehi! Pezzo di rincoglionito, ti vuoi muovere?» Però!
Come da mia abitudine non le ho risposto, ma ho provato tanta compassione per lei e tutti gli altri giovani che si comportavano in questo modo. Mi sarebbe piaciuto instaurare un bel dialogo con tutti questi ragazzi sbandati, magari avrei potuto insegnare loro che nella vita si può e si debba essere perlomeno educati a prescindere.
Di certo manca loro una guida, qualcosa in cui credere, o qualcuno che quando serve sappia dirgli di no! Alla loro età però dovrebbero comunque sapere che a precostituirsi degli alibi fanno male a se stessi.
Qualche adulto non era da meno, però mi limito a parlare soltanto del caso più eclatante: una delle massime autorità che c’era a Casteldaccia quand’ero ragazzo, passeggiava tutte le sere in piazza con mio papà ed altri contadini; era talmente umile che il giorno in cui dovevo partire per Torino, si offrì di accompagnarmi con la sua macchina, insieme a mio papà, alla stazione di Palermo e gli ultimi saggi consigli me li diede lui.
La persona che ora ricopre grosso modo la medesima carica a Casteldaccia, l’umiltà credo che non sappia neanche cosa sia. Gli avevo regalato una copia del mio racconto Profumo Di Gelsomini ma un giorno l’ho visto in piazza e ho tirato dritto senza salutarlo. Lo so che non è stato un bel gesto e non è da me, ma proprio non me la sentivo!
Quando gli chiesi se potevo regalare una copia del mio medesimo racconto anche a qualcun’altra autorità di Casteldaccia e di destinarne alcune copie alla Biblioteca del nostro paese, mi disse: «Come no, è sempre un arricchimento culturale!»
«Però a chi li spedisco,» gli chiesi gentilmente.
«Li spedisca pure alla mia attenzione,» mi rispose «all’attenzione del Dottor tal dei tali!»
E già la cosa non mi era piaciuta tanto, perché qualificandosi Dottore aveva eretto un muro tra lui e me. Poi mi disse di fargli avere il mio indirizzo affinché potesse scrivermi due righe di ringraziamento e non l’ha fatto lui, come non l’hanno fatto gli altri ai quali, con il suo consenso, regalai una copia del mio libro!
Uno dei miei cugini qualche giorno prima mentre, a tavola, parlavamo del più e del meno mi aveva detto: «Sai ho incontrato il Dottor tal dei tali e mi disse di farti sapere che ti fece scrivere una bella lettera di ringraziamento da un suo collaboratore, ma è come se ti avesse scritto lui di persona».
A mio cugino non l’ho detto, ma era chiaramente una misera menzogna e per di più architettata da una persona poco arguta da pensare che in questo modo era riuscito giustificarsi per il fatto che non mi aveva scritto e che io avrei attribuito la colpa al suo ipotetico collaboratore. Evidentemente non ha molta considerazione di me.
Non era obbligato a scrivermi, ci mancherebbe! Ma visto che mi aveva autorizzato a regalare una copia del mio racconto ad altre autorità e mi aveva chiesto di fargli avere il mio indirizzo per tale scopo, ci sono rimasto male che non l’abbia fatto e deluso che abbia cercato di giustificarsi nel modo in cui l’ha fatto.
E poi dico io, anche se fosse stato vero, farmi scrivere da un suo collaboratore!
«Me cojoni!» Direbbero i romani.
Neanche se fosse stato Il Presidente della Repubblica! Perciò mi sono fatto l’idea che sia una persona piena di sé, una di quelle persone che in assenza di sani principi e valori morali si serve della posizione che occupa, spero con merito ma ne dubito, per sentirsi importante e superiore agli altri.
Quindi a cosa lo salutavo a fare? Per ossequiarlo e poi sentirmi recitare qualche falsa e patetica frase di circostanza? E infine come avrei dovuto salutarlo? Avrei potuto dirgli buongiorno? O avrei dovuto dirgli: «Baciamo le mani, illustrissimo Dottor tal dei tali! Io che ho frequentato le scuole serali, del tipo Non è mai troppo tardi, posso avere l’onore di conoscerla?»
«Ma mi faccia il piacere!» Diceva Totò.
Sicuramente mi avrebbe chiesto quanto è grande la mia aziendina e dato che avrei glissato fingendo di non aver capito pur di non rispondere a questa stupida domanda, avrebbe aggirato l’ostacolo e mi avrebbe chiesto quanti dipendenti ho; e siccome gli avrei risposto che ne ho quanti me ne occorrono l’avrei messo in difficoltà, perché non sapendo quanto è grande la mia aziendina, o quanti dipendenti ho, come faceva a giudicare che persona sono?
Da ciò che ha letto nel mio racconto? Dubito che l’abbia letto, ma può darsi che mi sbagli, in ogni caso tutto ciò che avrebbe saputo chiedermi penso che sarebbe stato: «Quanto tempo hai impiegato a scriverlo?» Senza considerare che alla scrittura posso dedicare poche ore alla settimana e che per lunghi periodi l’ho tenuto in un cassetto.
«Da Dicembre 2005 a Marzo 2013, la prima data è riportata alla fine del racconto, la seconda data è quella in cui è stato pubblicato ed è scritta in tutti i libri, quindi circa otto anni!» Cos’altro avrei potuto rispondergli?
«Eh!... Circa otto anni per scarabocchiare quattro pagine ed esprimere due concetti elementari?» Già l’immagino la faccia che avrebbe fatto e so anche che da ciò avrebbe dedotto che valgo poco, perché per alcune persone non conta chi ha scritto un libro e ciò che ha scritto, ma in quanto tempo è riuscito a farlo!
Immagino che gli sarebbe sembrato umiliante stringere la mano ad un ex vaccaru e per di più per qualcosa che lui non sarebbe mai capace di fare. Infatti quando deve scrivere, sempre che scriva, lo fa fare ai suoi collaboratori che certamente sono molto più bravi di lui.
Una persona così non arriverebbe mai a capire quanto mi sia costato, in termini emotivi, scrivere ogni riga di ciò che ho scritto. La mia psicologa Cristina Barbero che lo sapeva benissimo la prima cosa che mi disse quando lesse i primi capitoli del manoscritto fu: «È stato coraggioso a scrivere quello che ha scritto! Mi lasci finire, poi le dico». Poche sedute dopo mi fece i complimenti e mi disse di essere orgogliosa di lavorare con un paziente come me; non ero abituato a ricevere complimenti da una psicologa e quindi mi sono commosso!
Perciò, probabilmente con il Dottor tal dei tali sarei stato vago e ironico, se non sarcastico, così mi avrebbe giudicato scortese e avrebbe avuto ragione, perché sinceramente non avrei avuto piacere di trattarlo amichevolmente. Ma può darsi che mi sbagli ed i miei siano soltanto preconcetti. In questo caso alla prossima occasione, non avrò alcun problema a chiedergli scusa e stringergli la mano.
Quando da ragazzino portavo il latte agli abitanti dei Villini di Casteldaccia, uno di quei signori mi rimproverò perché gli dissi buongiorno: «A te non hanno insegnato come si saluta? Che questa sia l’ultima volta che mi dici buongiorno! Dalla prossima volta ricordati di dirmi sabbenarica, altrimenti t’insegno io l’educazione!»
Lascio immaginare quanto ci sono rimasto male! Gli avevo detto buongiorno con un tono tanto rispettoso e non gli andava bene? Non ci fu una prossima volta, perché tornato a casa dissi a mio papà che il latte a quel cafone del Signor pinco pallino, non l’avrei mai più portato: «Non glielo porto più neanche se mi ammazzi!» Aggiunsi.
Mi chiese perché e sorprendentemente mi disse: «Quello vuole che tu sia sottomesso non educato, perciò sono io che non ti mando più da lui!»
Infatti educare non vuol dire mortificare.
Quel giorno fui fiero di mio papà, forse avevo il papà migliore che ci fosse al mondo, peccato che non sapesse fare anche da mamma. Ed è a questo episodio che ho pensato quando decisi di non salutare il Signor, pardon, il Dottor tal dei tali! Prima che lui snobbasse me, io decisi di snobbare lui!
Però ritornare a Casteldaccia è stato bello e utile a farmi capire che non potrò mai fare a meno di ritornarci: sento il bisogno di portare un fiore a mamma e papà e di rivedere i miei cugini con i quali abbiamo un rapporto fraterno. E in fine ho incontrato e conosciuto anche tante belle e brave persone per i quali merita di ritornarci.
Un signore che ho incontrato al Lia Bar Pasticceria, dopo che ci siamo salutati, mi disse: «Cicciuzzu, pìgghiati zoccu ti piàci!» L’allusione a ciò che ho scritto a pag. 126 del mio racconto Profumo Di Gelsomini mi sembra fin troppo chiara, infatti me lo diceva il signor Angelo Pizzuto quando da bambino la Domenica pomeriggio mi recavo al bar che si chiamava appunto Pizzuto, per ascoltare il giornale radio e la radiocronaca del secondo tempo della partita di calcio di serie A.
Ho regalato una copia del mio racconto Profumo Di Gelsomini al figlio della mia maestra di prima elementare, con la seguente dedica: «Alla Cara Maestra Angela Maggio Rotolo che non c’è più, ma vive sempre nei miei ricordi». Purtroppo non ho potuto darglielo di persona; si era preso alcuni giorni di vacanze e quindi l’ho lasciato a sua cugina che mi chiese se poteva dargli uno sguardo: «Non è un segreto di stato, se le fa piacere può farlo», le risposi.
Sfogliò le prime pagine e quando lesse la dedica a sua zia le sono scese le lacrime, poi mentre si asciugava il viso con un fazzoletto di carta usa e getta, mi disse: «Mi scusi Francesco, ma zia Angela per me è stata una seconda mamma!»
«Capisco!» Le risposi.
Poi diede una sbirciata veloce a tutto il libro e con voce accorata mi disse: «Mi lasci il suo numero di telefono, così non appena sarà possibile la faccio chiamare da mio cugino, può darsi che torni già domani».
L’indomani pomeriggio sono tornato a trovarla per vedere se casomai ci fosse il cugino e con tono commosso mi disse: «Mi sono talmente emozionata che il suo libro ho quasi finito di leggerlo prima io. Alcuni episodi che descrive mi hanno riportato indietro nel tempo e chi l’avrebbe mai detto che ci fosse un nostro compaesano tanto sensibile e con questo talento!»
Quando mi chiamò suo cugino eravamo già partiti e fu ancora più commovente di sua cugina! Era dispiaciuto di non averci potuto conoscere e si fece promettere che quando torneremo a Casteldaccia dovremo essere loro ospiti, una sera a cena: «Perché tutti noi vi vogliamo conoscere,» mi disse con modi familiari.
Probabilmente non avendo ancora letto il libro che gli ho regalato, non ricordava che quand’ero bambino sua mamma mi portava a casa sua e mentre io giocavo con i suoi giocattoli lui puntualmente piangeva. Quindi noi due molti anni fa ci siamo già conosciuti, io di lui mi ricordo benissimo.
Salvatore che ha risposto con un messaggio, alla lettera che gli avevo inviato, tra le altre cose grosso modo mi scrisse: …«Tutti noi abbiamo letto il tuo libro con enorme interesse ed ammirazione per il tuo percorso di crescita e per il tuo modo positivo di affrontare i problemi. (…). Ad Agosto noi siamo in campagna, ricordati di riservarti almeno una serata per noi, Sabato 22 Agosto sarebbe eccellente!»
«Sabato 22 Agosto va benissimo anche per noi, però come faccio a sapere dov’è la vostra casa in campagna?» Gli chiesi per telefono.
«È facilissimo,» mi rispose. «Te lo spiego subito con un messaggio». Dopo una decina di minuti ricevetti il suo messaggio con la seguente spiegazione: …«Quando arrivi nella piazzetta con le giare senz’acqua, prendi la strada che porta verso il ciànnaru,» una contrada di campagna «dopo circa 4 Km, quando incontri un grande cartello con scritto Hotel Valle Corvo, gira subito a destra per Strada 25 Salme; dopo 100 metri gira a sinistra per Strada Valle Corvo, ancora 300 metri e alla prima casa a destra siete arrivati. La salma è un’unità di misura siciliana del terreno agricolo, non è un cadavere!»
Che ridere mi sono fatto! Era chiaro che simpaticamente faceva riferimento a quello che, grosso modo, gli avevo scritto nella lettera a proposito di morti e cimiteri e allora gli risposi: «Grazie per la precisazione Salvatore, ma questo lo sapevo anch’io, che ti sei dimenticato che provengo da una famiglia di contadini?»
A questo punto qualsiasi altra persona che non fosse stata un medico mi avrebbe chiesto: «C’è qualche cibo che non vi piace?»
Lui invece mi chiese: «Dimmi Ciccio, per caso avete qualche allergia o intolleranza alimentare?»
Non ero preparato per questa domanda e rimasi sorpreso, però mi è piaciuta tanto, non era banale come di solito se ne fanno tante altre, perché lui oltre ad avere rispetto per i nostri gusti aveva rispetto anche per la nostra salute.
«No!» Gli risposi compiaciuto, dopo aver riflettuto un istante, «possiamo mangiare di tutto, non fatevi problemi».
A cena da Salvatore abbiamo trascorso una delle più belle serate delle nostre vacanze in Sicilia.
Alcuni sono arrivati dopo ma prima di cena erano tutti presenti: sua moglie Emanuela e i loro figli Martina, Barbara e Federico; Giuseppe un amico di Martina; sua sorella Giovanna con il marito Vincenzo e i loro figli Loredana e Danilo; il cognato Pino, marito di sua sorella Mimma che purtroppo non c’è più, con sua figlia Ivana e la sua amica Rossana.
Nessuno di loro ha fatto sfoggio della propria cultura, dopo pochi minuti si era già creato un clima che oserei definire familiare, abbiamo parlato di vecchi ricordi ed ero lusingato dalla curiosità e l’interesse con il quale i ragazzi ascoltavano i nostri discorsi.
Mia moglie è un po’ incostante ma quand’è di luna buona e quella sera lo era, ascoltarla è un piacere. Avevo detto a Salvatore che avrebbe potuto fare la dottoressa, perché quando qualcuno della nostra famiglia sta male, lei ha sempre a portata di mano la medicina giusta.
E a questo punto lei gli raccontò di quando una volta, distrattamente mi diede un antibiotico scaduto, come per sottolineare che a volte sbaglia anche lei, bontà sua: «Mi ero preoccupata talmente tanto che stavo male io per lui!» Gli disse.
«E poi com’è finita,» le chiese Salvatore.
«Niente, ho telefonato ad un amico dottore di Bolzano che abbiamo conosciuto a Rivazzurra vicino Rimini e così mi sono tranquillizzata».
«Perché cosa ti disse».
«Mi disse di stare tranquilla, perché al massimo l’antibiotico scaduto non avrebbe avuto effetto curativo però non gli avrebbe fatto male. Che sollievo è stato, altrimenti capace che non avrei dormito tutta la notte!»
Salvatore la guardò con una espressione che sembrava dire: «Ti ha consigliato bene».
Avrei aiutato volentieri Salatore a preparare il cibo, ma lui mi disse di essere geloso della sua brace e quindi dovetti fare l’ospite in tutto e per tutto.
Così in attesa che arrivassero tutti gli altri, mia moglie ed io, siamo rimasti a parlare con sua moglie Emanuela ed i suoi figli Martina e Federico. Emanuela è stata splendida, con la sua semplicità e la sua spontaneità è riuscita a metterci subito a nostro agio.
Durante la cena a Salvatore feci la seguente domanda: «Data la tua specializzazione di oncologo presumo che un’alta percentuale dei tuoi pazienti purtroppo non ce la fa, come riesci a conciliare questo con il tuo coscienzioso desiderio di poterli salvare tutti?» La risposta che mi diede è stata eloquente ed esaltava le sue innate qualità umane: «Purtroppo caro Ciccio, è sempre una sconfitta!»
Penso che la sua sfida con il male sia impari e presumo che ormai conti i pazienti che riesce a salvare, quelli che non ce la fanno è solo colpa del destino, il medico purtroppo può essere bravissimo, ma non onnipotente.
Ai ragazzi ho raccontato che la loro nonna la Domenica a pranzo preparava un ottimo sugo, con la salsiccia e le costine di maiale, però ci metteva troppo olio. Giovanna che come tutti gli altri ascoltava interessata e curiosa intervenne e disse: «Vero è! Noi glielo dicevamo sempre alla mamma, finché poi l’ha capito. Non è possibile» aggiunse rivolgendosi ad Emanuela «pure questo ricorda, neanche noi figli ricordavamo tutti questi particolari».
Nei volti di tutti loro si leggeva l’ammirazione che provavano nel constatare che ero proprio la stessa persona che avevano conosciuto attraverso la lettura del mio libro.
Erano sbalorditi e affascinati dalla ricchezza di aneddoti e particolari che ricordavo. In compenso Giovanna e Salvatore mi aiutarono a rammentarne altri che non ricordavo io.
La tettoia dove cenammo era il luogo più fresco e trascorremmo lì l’intera serata; mentre continuammo a parlare di vecchi ricordi, fino a tarda notte, Loredana fece notare che quando è arrivata ero stato l’unico gentiluomo ad abbracciarla, ma questo penso che sia giustificato dal fatto che ero anche l’unico uomo che la conosceva per la prima volta.
Ho apprezzato molto che i ragazzi, nonostante che fosse Sabato, rinunciarono ad uscire presto per restare a parlare con noi. Io faccio il tifo per i bravi ragazzi!
Quando fu l’ora di andar via ci siamo abbracciati tutti e salutati come se fossimo stati familiari. I nostri volti non erano solcati da lacrime, si respirava un’aria di allegria e c’era il sorriso sulle labbra di tutti, perché il nostro non era un malinconico e triste addio, ma un arrivederci a presto.
È stato bello che, tanto io a Santa Caterina, quanto mia moglie a Casteldaccia, abbiamo ricevuto una bella e calorosa accoglienza. E poi devo dire l’aria della Sicilia con il profumo del suo mare, i suoi suoni, i suoi colori di oleandri e bouganville ed i suoi profumi di zagara e gelsomini, ha fatto bene ad entrambi.
Ci siamo messi a letto ch’erano già le due passate, verso le nove accompagnati da uno dei miei cugini siamo andati al cimitero e abbiamo fatto visita a tutti i nostri cari.
A mamma ho pulito il marmo frontale della sua tomba, il vetro che copriva la sua fotografia e la mensola dove stavano una lampadina accesa, per la quale mi sono impegnato a pagare il contratto d’illuminazione votiva per lei e papà e un vaso per i fiori.
Quella bella ragazza di 22 anni era mia mamma! Dato che da lei ho sempre fuggito credo che non l’avessi mai notato così bene, non mi sembrava vero e ho provato una sensazione bellissima ed emozionante. Finalmente ero cosciente che anch’io ho avuto una mamma!
Mentalmente ho parlato con lei serenamente, le ho detto che finche vivo non sarà mai né sola, né dimenticata, mentre mia moglie e mio cugino che sicuramente qualcosa avevano intuito, mi osservavano commossi!
Camminando per le vie del cimitero ho visto tombe eleganti ed altre poverelle. Ce n’era una abbandonata sulla quale lasciai un fiore e mi sono tornate in mente le belle parole della poesia di Totò, A Livella, della quale ne cito una piccola parte:
“...‘Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l’11 Maggio del ’31’.
’O stemma cu ’a curona ’ncoppa a tutto…
…sotto ’na croce fatta ’e lampadine;
tre mazze ’e rose cu ’na lista ’e lutto:
cannele cannelotte e sei lumine.
Proprio attaccata ’a tomba ’e ’stu signore
nce stava ’n ’ata tomba piccerella,
abbandunata, senza manco un fiore;
pe’ segno sulamente ’na crucella.
E ncoppa ’a croce appena si leggeva:
‘Esposito Gennaro – netturbino’:
guardannola, che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita! ’ncapo a me penzavo…
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s’aspettava
ca pur all’atu munno era pezzente?’…”
Prima di partire, al cimitero ci sono ritornato da solo; avevo un buon motivo, dovevo fare qualcosa che non mi era stato possibile fare prima, ma non dico cosa, così chi legge può dare libero sfogo alla propria immaginazione.
Tornati a San Mauro Torinese, ho mandato una breve mail di ringraziamento a Salvatore, per la bella, divertente e affettuosa serata trascorsa insieme e per fargli notare la differenza di comportamento dei loro figli e dei loro giovani amici, rispetto ad altri ragazzi che avevamo conosciuto in paese. Dopo alcuni minuti mi rispose con il seguente messaggio:
«Caro Ciccio, incontrare te e tua moglie era un evento a cui tutti noi eravamo preparati da tempo, per cui è stato facile entrare subito in sintonia da parte di tutti. I nostri figli sono abituati a condividere con noi tutti i momenti importanti e quella sera era un momento importante!» Non appena l’ho letto mi è venuta la pelle d’oca!
In seguito, durante una telefonata, dopo avergli detto che mi sento ancora in debito con i suoi genitori mi rispose: «Apprezzo il tuo modo di essere riconoscente, ma devo dirti che non devi niente a nessuno e devi tutto a te stesso, alla tua intraprendenza, alla tua tenacia e alla tua intelligenza!»
Bisogna andarci piano con i complimenti, perché alla mia età certe emozioni non le reggo tanto facilmente e puntualmente arrossisco!
Però quando vedo persone che pur essendo più giovani di me hanno problemi di salute ed altri che hanno seri problemi economici, ci credo veramente di essere in debito con alcune persone e con la fortuna.
Nei primi giorni di Settembre, ho ricevuto una breve lettera da una ragazza che avevo conosciuto verso la fine delle nostre vacanze a Casteldaccia. Questa ragazza, per come scrive, Dottoressa lo è davvero, a prescindere da ciò che fa!
Ho deciso di concludere questo mio racconto con la sua lettera, perché ciò che mi ha scritto è così bello ed emozionante che merita di essere inserito come “ciliegina sulla torta”. Tralascio soltanto i saluti ed i convenevoli.
Casteldaccia, 31 Agosto 2014
Caro Francesco,
ti scrivo io perché mamma, come saprai, neanche lei è potuta andare a scuola.
Nonna mi raccontava che oltre a mamma allattava un altro bambino, di nome Francesco, rimasto orfano di sua mamma. Mi diceva che non aveva latte a sufficienza per entrambi, perciò nutriva il piccolo orfanello alternandosi con altre mamme.
Una ragazzina di appena tredici anni – zia Maria – due volte al giorno glielo portava e poi se ne stava lì ad aspettare finché, dopo aver poppato, il piccolo orfanello smetteva di piangere e poteva riportarselo a casa tranquillo.
Io che ho ricevuto tutto l’affetto dei nonni e dei genitori, ho sempre pensato che fosse una delle tante favole che si raccontano ai bambini. Perciò capirai con quanto stupore e curiosità ho accolto il dono del tuo libro che hai fatto a mamma.
Mentre glielo leggevo eravamo più che commosse; mamma dice di essere onorata di sapere che ha diviso con te le poppate. Io ti dico che sono lieta di averti conosciuto e fiera di nonna che contribuì a crescerti.
Ieri con mamma siamo andate al cimitero, ad un certo punto una tomba con dei fiori di
gelsomino ci attrasse, ci siamo avvicinate e come sospettavamo era la tomba di tua mamma. Per mamma fu come se quei fiori, inusuali per i defunti, li vedesse per la prima volta e si commosse, per me fu come se la favola del piccolo orfanello continuasse.
I fiori di gelsomino non mi lasceranno mai più indifferente, per me non saranno mai più fiori uguali ad altri fiori ed il loro profumo mi ricorderà sempre la favola del piccolo orfanello che seppe diventare una persona speciale!
Questa volta il fazzoletto mi è servito veramente, è una lettera troppo commovente!...
Dalla medesima si capisce benissimo chi fosse questa ragazza e forse anche perché sono ritornato al cimitero. Vi do un aiutino, non volevo andare via senza portare a mamma un rametto di fiori dal profumo unico al mondo!...
La clinica Fornaca
Un opuscolo della Clinica Fornaca Di Sessant di Torino che, ho trovato casualmente, mi fece ritornare in mente un vecchio episodio che ora provo a raccontare.
Nel 1962 alla Clinica Fornaca venne a farsi operare, se non ricordo male per dei calcoli ad un rene, il mio compaesano Francesco Canale. Un signore che abitava quasi al fondo e al lato destro di via Allò.
Faceva il calzolaio, ma in seguito rilevò la tabaccheria che c’era accanto alla sua abitazione, della quale era proprietario un certo Pietro Montesanto. Come quasi tutti gli abitanti del mio paese, anche lui aveva un soprannome! Lo chiamavano u zu Cicciu u muliettu.
Si fece operare dal Prof. Achille Mario Dogliotti, celebre per essere stato uno dei primi al mondo ad eseguire un intervento chirurgico a cuore aperto.
Da allora per fortuna la chirurgia e la medicina in generale hanno fatto passi da gigante. Ormai interventi di questo tipo si risolvono nel giro di qualche giorno e con delle tecniche poco invasive, tipo: litotripsia extracorporea; litotrissia extracorporea, intracorporea e percutanea; trattamento endourologico e altre che non sto qui a citare per non dilungarmi più di tanto.
Ma le persone della mia età sanno bene che una volta si moriva per molto meno.
Tanto per fare un esempio madrina Domenica, sorella maggiore di mio papà, mi raccontò che mia mamma morì perché dopo che mi diede alla luce si ammalò di tifo. Il nostro medico di famiglia, purtroppo, non riuscì a fare una pronta e corretta diagnosi: «Niente di grave, è solo una brutta influenza!» Disse a lei e a mio papà che ne sapevano molto meno di lui e non poterono smentirlo.
Mia mamma intanto peggiorò velocemente, già era indebolita dal parto e quando il dottore si rese conto di che si trattava, era ormai troppo tardi. E pensare che, spero di non sbagliarmi, sarebbero bastate alcune punture di penicillina e qualche disidratante per guarirla. Ma purtroppo all’epoca la penicillina in Sicilia non era facilmente reperibile.
Per una semplice appendicectomia i chirurghi facevano incisioni di dieci centimetri e oltre, e prima che potessero dimettere il paziente, nella migliore delle ipotesi, occorreva una settimana. Quindi la preoccupazione del mio compaesano che, per quello che oggi sarebbe un banale intervento chirurgico, lo indusse a farsi operare addirittura a pagamento dal Prof. Dogliotti era più che giustificata.
La Domenica pomeriggio, dopo che fu operato, da perfetto incosciente e intenzionato a fare un’opera buona andai a trovarlo. Per la verità era stato mio papà ad informarmi e suggerirmi di andare a trovarlo, mi disse che erano molto amici e ci teneva che lo facessi.
Così mi mise nei guai, i genitori con le loro ambiziose aspettative sanno sempre come mettere nei guai i propri figli, ci riescono bene, sistematicamente e senza sforzarsi più tanto! Ma non c’è da fargliene una colpa, ci nascono con questo talento!
Se già allora con mio papà avessimo avuto un rapporto amichevole avrei potuto dirgli che non ero quell’ometto che lui pensava e anche se mi dispiaceva preferivo non accontentarlo; o meglio, se già allora con mio papà avessimo avuto un rapporto amichevole forse sarei stato veramente quell’ometto che lui pensava e non avrei avuto alcun problema ad accontentarlo.
Ma siccome lui era lontano anni luce dal mio mondo, se mai gli avessi detto che la cosa mi turbava sarebbe sprofondato nella delusione e quindi per evitare ciò, lo feci contento lo stesso anche se sinceramente non ero tanto felice di farlo.
Così si erano creati i presupposti per il “fallimento” della missione. Diverso sarebbe stato se mi avesse detto: «Fai tu, se te la senti vai a trovarlo, altrimenti non importa, sappi che in ogni caso per me tu sei e sarai sempre più importante del mio amico». Perché in questo caso primo, non avrei avuto la sgradevole sensazione che la sua unica preoccupazione fosse quella di ben figurare con il suo amico e secondo, la libertà di scelta mi avrebbe posto in una condizione meno disagevole.
Data la lontananza da Casteldaccia a Torino, quel giorno accanto al paziente non c’era nessuno dei suoi familiari che potesse confortarlo ed era molto demoralizzato. Giaceva sprofondato malinconicamente in quel letto d’ospedale, aveva il morale alle calcagna e la mia visita che in qualche modo fu di consolazione a lui, non giovò a me che non ero preparato per un tale incontro: non avevo mai visto niente di simile!
Aveva due tubicini che gli fuoriuscivano dall’addome, così sembrava: da uno scorreva del liquido giallastro, dall’altro qualcosa che sembrava sangue e mi sembrò di colore strano.
Ciascun tubicino confluiva in una sacca, entrambe le sacche erano appese alla spondina del suo letto, visibili dall’ingresso della cameretta che si trovava alla sua destra, e mezze piene di quei liquidi che giudicai ripugnanti.
Una flebo gli distillava il benefico contenuto, non so se nutritivo, curativo o altro, a ritmo cadenzato in una vena del braccio destro, che non poteva muovere. Ero ragazzo, oltre ai disagi dell’infanzia, mi portavo dietro anche quelli legati all’immigrazione e quando lo vidi, conciato in quel modo, rimasi sconvolto!
In quella cameretta non c’erano altri pazienti , quindi eravamo soltanto noi due; il tempo che gli stetti accanto fu penoso ed interminabile, ostentai disinvoltura, a fatica cercai di nascondere il mio disagio, gli abbozzai alcune patetiche parole di conforto e quando la caposala mi disse che non potevo più stare e dovevo andare via, accolsi l’invito come una liberazione!
Gli dissi: «Mi dispiace zu Ciccio, ma come vede purtroppo non mi fanno più stare,» lo salutai velocemente e andai via senza esitare un istante, che stronzo sono stato!
L’incubo mi perseguitò fedelmente come un’ombra per alcuni giorni, durante i quali continuai a farmi la stessa domanda: «Mischinu, poviru cristianu, accussì av’accampari, cu ssi tubi appizzati nna panza?» A lui non avevo osato chiedere spiegazioni.
Nei giorni successivi le chiesi ad un conoscente, più o meno istruito in materia, che mi rassicurò: «Non preoccuparti,» mi disse «sono delle cannule che vengono introdotte all’interno, nel corpo del paziente, per favorire la fuoriuscita di liquidi organici: sangue, urina, ecc...
Possono essere impiegate anche per somministrare farmaci, a scopo diagnostico, e altro ancora; fra non molto gliele toglieranno e le sacche graduate che permettono di monitorare la diuresi oraria, la natura e la quantità dell’altro liquido, non saranno più necessarie». Tirai un bel sospiro di sollievo: «Meno male!» Gli dissi, e lo ringraziai per la confortante notizia.
Due anni dopo tornai a Casteldaccia per le ferie, un pomeriggio verso la fine delle vacanze ero appena entrato in piazza Matrice proveniente da via Cusimano, quando dal circolo ricreativo sentii una voce invocare il mio nome: era u zu Cicciu che veniva verso di me e mi chiamava!
Non appena lo vidi ebbi un sussulto, avevo piacere di salutarlo ma quando andai a trovarlo alla Clinica Fornaca pensavo di aver fatto una figuraccia e temevo di averlo deluso, perciò provai un po’ d’imbarazzo e prima di andargli incontro esitai un momento.
Quando fummo vicini e ci salutammo, mi abbracciò come nessun altro uomo aveva fatto mai, provai un senso di sollievo e l’abbracciai anch’io. «Se non hai fretta, vieni a fare quattro chiacchierare con noi?» Mi chiese dopo i convenevoli, riferendosi ai suoi amici che stavano seduti davanti all’uscio del circolo ricreativo. «Vengo volentieri,» gli risposi compiaciuto per l’invito.
Quando arrivammo salutai anche i suoi amici e tutte le altre persone che stavano nelle vicinanze. Poi, mentre parlavamo del più e del meno, u zu Cicciu chiese un momento d’attenzione e ad alta voce, affinché tutti potessero ascoltarlo, raccontò che andai a trovarlo alla Clinica Fornaca e non finiva più di complimentarsi con me e di ringraziarmi!
«Ma come! Quel giorno non vedevo l’ora di andar via e lei mi fa i complimenti e mi ringrazia pure?» Gli chiesi stupito.
«Sapessi, caru Cicciuzzu! Io percepivo il tuo disaggio sai? Ma è proprio per questo che apprezzai maggiormente la tua visita!»
«Questa è bella! E perché?» Gli chiesi incuriosito.
«Perché tu sei venuto a trovarmi, mentre altri compaesani con i quali eravamo molto amici ed ero convinto che sarebbero stati i primi a venire, finsero di non sapere! Capisci?»
«Capisco! Ma ora basta zu Cicciu, se no mi commuovo!»
Intanto fra un discorso e l’altro fu l’ora di andar via, ma prima di lasciarmi andare mi fece una carezza e ci risalutammo affettuosamente. Che brava persona!
Mentre mi allontanavo sentivo qualcuno che gli diceva: «Ciettu ca sempri giuriziusu ha statu ssu picciuttieddu!»
A distanza di anni la mia opinione sulla richiesta di papà, di andare a trovare u zu Cicciu alla Clinica Fornaca è cambiata, perché anche se accontentarlo non è stato piacevole, l’averlo fatto mi permise in seguito di meritarmi la stima di tante brave persone.
Il riscatto
Erano passati circa cinquant’anni da quando ero andato a trovare u zu Cicciu alla Clinica Fornaca; quando un giorno andai a trovare “la ormai famosa” zia Rosa, che si trovava in terapia intensiva all’ospedale Don Giovanni Bosco di Torino.
Nei primi giorni la tenevano in coma farmacologico e potevamo vederla soltanto da dietro, attraverso i vetri del corridoio che portava all’ingresso di quel reparto, dove nessun parente della zia era autorizzato ad entrare.
Dopo un bel po’ di giorni, quando la zia era ormai cosciente, il medico di guardia che in determinati orari del mattino forniva informazioni cliniche inerenti lo stato di salute dei pazienti, disse al nostro referente che da quel pomeriggio, negli orari di visite potevamo entrare; però soltanto quattro persone al giorno, una per volta e per non più di venti minuti ciascuno.
Quel giorno zio Salvatore, marito di zia Rosa, era rimasto a casa con Ninì, i tre figli della zia com’era giusto che fosse, anche se pallidi in volto si fecero coraggio ed uno per volta furono i primi ad entrare. Per loro stare lì dentro credo che sia stato un vero supplizio, man mano che uscivano erano talmente sconvolti che mi domandai se non fosse il caso di riportarli dentro, in rianimazione!
Nei giorni precedenti avevo riflettuto a lungo, se tutto andava come speravamo, mi sarei trovato nella scomoda situazione di dover decidere se entrare in quel reparto o non entrare. La mia mente vacillava, ero angosciato se pensavo di entrare e deluso quando decidevo il contrario.
Ai parenti avrei potuto dire che avevamo dei lavori urgenti da consegnare e che per alcuni giorni la zia non potevo andare a trovarla; sarebbe stata una buona scusa e può darsi che loro mi avrebbero creduto.
Ma cosa avrei raccontato alla mia coscienza? La zia è sempre stata premurosa con tutti e adesso io scappavo? Sarei stato un vero vigliacco! Pensai alla pessima esperienza fatta nel ’62 alla Clinica Fornaca, conclusi che avevo l’opportunità di riscattarmi e grazie al cielo presi la decisione giusta.
Per la verità occasioni per riscattarmi ne avevo avute tante e devo dire che negli ultimi anni non mi ero comportato tanto male, ma per fortuna nessun’altra storia era stata tanto forte e con il rischio reale che l’epilogo fosse drammatico.
Quindi se volevo riscattarmi, questa era l’unica prova che contava e per farlo c’era un solo modo, entrare subito e confortare la zia. Così, dopo i suoi figli, fui il primo ad entrare!
Con l’infermiera che aveva in cura la zia ed un altro paziente entrammo subito in sintonia, mi fece lavare le mani all’ingresso e mi disse che avrei dovuto lavarle anche all’uscita dal reparto, mi suggerì di indossare alcuni indumenti sterili e mi diede alcuni consigli:
«Ci sono dispositivi che emettono suoni d’allarme o lampeggiano e il monitor può illuminarsi di vari colori, indicano che potrebbe esserci la necessità d’intervenire ma, data la sensibilità di queste apparecchiature, il più delle volte succede perché il paziente si muove o tossisce, quindi non si preoccupi, noi sappiamo quando c’è la reale necessità d’intervenire», dopodiché mi lasciò andare dalla zia.
A volte si dice che la vita di una data persona è appesa ad un filo, quella della zia invece era appesa a molti fili e tubicini, collegati a tutta una serie di sofisticati macchinari, ad un letto altamente tecnologico in grado di assumere molteplici posizioni diverse e ad un materasso ad aria per prevenire la formazione di piaghe da decubito.
La sala, ampia e luminosa, era dotata all’incirca di dieci posti letto ben distanti uno dall’altro e accessibili dai quattro lati, quello della zia naturalmente era il più equipaggiato, lei è sempre stata esagerata e anche in questo caso aveva fatto in modo di non farsi mancare niente.
Quindi, grosso modo, per aiutarla a mantenere in equilibrio le sue funzioni vitali e permettere agli operatori di monitorare costantemente i relativi parametri c’erano: una barra di alimentazione, un ventilatore meccanico, pompe infusionali, ossigenoterapia, un sistema di aspirazione, un defibrillatore, un carrello per avere a portata di mano i medicinali e i materiali specifici e personalizzati per la sua patologia, un sistema per lo smaltimento del materiale biologico, una macchina per la dialisi, un monitor, e forse altro.
Ovviamente alcuni di questi strumenti venivano utilizzati solo se necessario, per cui sul corpo della zia all’occorrenza poteva esserci di tutto, ma non tutto contemporaneamente: una maschera facciale, una nasale, un tubo orotracheale, uno nasotracheale, una cannula tracheostomica, un saturimetro, degli elettrodi, un bracciale per pressione arteriosa, un sondino nasogastrico, una sonda termica, una coperta termica per garantire alla paziente una temperatura costante, un catetere venoso centrale, uno arterioso, uno vescicale e uno periferico (agucannula) sul dorso della sua mano destra, che mi pare fosse di 14-gauge.
Chiaramente non potevano mancare le famose sacche graduate appese al suo letto, dove confluivano i liquidi che scorrevano da alcuni tubicini che fuoriuscivano grossomodo dal suo ventre.
Il tubo orotracheale che le avevano inserito non so perché, alcuni giorni precedenti, le impediva temporaneamente l’uso delle corde vocali, quindi si esprimeva con gli occhi, faticosi movimenti delle labbra e una febbrile gestualità della mano sinistra che era l’unica parte libera del suo corpo. Si lamentò che aveva la bocca e le labbra secche, ma notai che le sue labbra erano anche screpolate.
A stento riuscii a capirla, lo dissi cortesemente alla sua infermiera che mi autorizzò ad utilizzare tovaglioli sterili, adatti per quell’uso, che stavano in un apposito contenitore: «Dopo l’uso si ricordi di gettarli nel cestino, monouso, giusto,» mi disse con un sorriso che mi sembrò volesse dire: «Ero certa che l’avrebbe fatto anche se non gliel’avessi ricordato».
Pensai che gli operatori di quel reparto, più di altri, sono esposti alla Sindrome Da Burnout e rimasi colpito dalla professionalità e l’amore che, nonostante ciò, mettevano nel proprio lavoro. Il loro altruismo mi parve encomiabile!
Mentre l’infermiera si recava dall’altro paziente, la ringraziai e finalmente mi dedicai alla zia: presi alcuni tovaglioli, li passai delicatamente sulle sue labbra dando dei colpetti senza strofinare troppo, le asciugai la fronte, sistemai le lenzuola del suo letto, diedi una sbirciata a tutto l’ambaradan che la circondava e poi mi sedetti accanto a lei, alla sua sinistra.
Ero animato da un forte sentimento di bontà e c’era in me il sincero desiderio di darle tutto il mio affetto; sorprendentemente ero disteso, tranquillo, sereno, rilassato e per niente impressionato; la zia era sofferente, ma percepiva il mio stato d’animo ed era felice di vedermi accanto a lei.
Mentre le tenevo delicatamente la mano che aveva libera, scherzai: «Zia, per farsi coccolare non era necessario che stesse tanto male, bastava molto meno!» Sorrise, mi tirò la mano con la quale le tenevo la sua e mi avvicinò a lei per tentare di darmi o farsi dare un bacetto. È stato bellissimo, un momento di sublime dolcezza.
Non le dissi che era stata vittima di un infarto intestinale, non lo ritenni opportuno, pensai che fosse più prudente lasciarlo fare agli psicologi che più di me sapevano se, come e quando dirglielo. La esortai a tornare presto a casa e le dissi: «Non si affezioni troppo a questo letto, altrimenti chi mi offre da bere quando vengo a casa sua?» Sorrise ancora, mi guardò con un’espressione dispiaciuta e benevola allo stesso tempo che sembrava dire: «Pezzu ri sdisanuratu nun mi fari rririri ca nun ciarrinesciu!»
Mentre andavo via notai, con piacere, che avevo trasmesso fiducia all’infermiera, speranza e coraggio alla zia; le dissi di stare tranquilla che sarebbe guarita in fretta, ne ero convinto e così è stato. In certi momenti dare un po’ d’affetto sincero fa bene al cuore ed ha un effetto terapeutico per chi soffre. Immergendomi nella sua sofferenza ero riuscito nell’impresa di andare al di là dei miei limiti ed ero felice.
Avevo esorcizzato un altro dei tanti mostri che si erano impossessati di me ed imparai che forse non stiamo mai male per qualcuno o per qualcosa, o forse anche per questo, ma stiamo male soprattutto quando perdiamo il controllo di noi stessi.
Attraverso questa, ed altre esperienze, imparai che non bisogna mai disperare, perché la vita trova sempre il modo per restituirci quanto a volte ci toglie. A questo proposito mi torna in mente un breve brano che ho letto in un libro di sociologia e credo che sia incoraggiante e di buon auspicio per tutti quanti.
L’ho imparato a memoria e dice così:
“La vita non è un cammino semplice e lineare lungo il quale possiamo procedere tranquilli e senza intoppi, ma piuttosto un intricato labirinto, attraverso il quale dobbiamo trovare la nostra strada, spesso smarriti e confusi, talvolta imprigionati in un vicolo cieco.
Ma sempre, se abbiamo fede, si aprirà una porta: forse non quella che ci saremmo aspettati, ma certamente quella che alla fine si rivelerà la migliore per noi.” A.J. Cronin
Imparai anche che la cura migliore per il paziente è quella che sa abbinare tecnologia più affetti. Al Don Bosco di Torino l’hanno capito anche i colleghi di Salvatore che nonostante le molte resistenze sono orientati ad aprire il reparto di Rianimazione e Terapia Intensiva per instaurare un benefico e terapeutico dialogo con i parenti dei pazienti.
Avrei potuto scrivere un racconto sul mio lavoro, ma di certo avrei annoiato i lettori e sarebbe stato troppo semplice, se non ci sono difficoltà nelle cose che uno fa, che piacere c’è? La mia psicologa Cristina Barbero sarebbe felice di sapere che riesco a fare un po’ di autoanalisi e che i suoi sforzi per aiutarmi non sono stati inutili.
Ma credo che molte altre persone sarebbero felici di sapere che, nonostante tutto, non mi sono perso per la strada, a cominciare dai genitori di Salvatore che mi volevano bene!
A Ninì
Sabato ventiquattro Gennaio 2015, all’età di sessantuno anni, è morto Ninì, fratello down di zia Rosa. L’indomani mattino con mia moglie siamo andati a trovarlo, la sua salma era stata sistemata in camera da letto e la porta era chiusa. Perciò, dopo aver salutato tutti i presenti, abbiamo detto alla zia che volevamo vederlo per dargli un ultimo caro saluto: «Andate pure,» ci disse lei con tono amorevole e compiaciuto.
Dopodiché, quando siamo ritornati nel tinello sono arrivati due giovani sposi che non conoscevamo, la zia li fece accomodare insieme a tutti gli altri e poi con la sua consueta spontaneità gli chiese se volevano vederlo anche loro: «Se volete vi accompagno io,» gli disse, affabilmente, per incoraggiarli. «No!» Le risposero in coro. «Preferiamo ricordarcelo com’era da vivo».
Quando stavo male solo al pensiero di dovermi avvicinare ad una casa dove c’era un morto, facevo di tutto pur di starne lontano e per giustificarmi dicevo esattamente la stessa frase: «Preferisco ricordarmelo com’era da vivo,» quindi la conoscevo molto bene. Però, anche se un piccolo sospetto ce l’ho, non intendo affermare che loro l’hanno detta per lo stesso motivo per il quale la dicevo io.
Il mattino seguente, durante il funerale, un indegno sacerdote che in chiesa celebrava il Rito Delle Esequie, sembrava quasi scocciato di doverlo fare, poiché è stato molto formale e sbrigativo. Che delusione, l’avrei radiato dall’ordine dei religiosi, perché una persona sensibile com’era Ninì, pensavo che meritasse due parole affettuose e personalizzate di lode, invece niente!
Quando arrivammo al Cimitero Monumentale di Torino ci dissero che in teoria di Lunedì era chiuso, perciò non essendoci alcun sacerdote ad accogliere il defunto, non fu celebrato nessun altro rito religioso ed il corteo si diresse direttamente verso la sala del commiato dove sostammo in raccoglimento per un po’, prima che portassero via la salma per la cremazione.
I minuti che trascorremmo in quel luogo che mette malinconia, dove una musichetta surreale altro non fa che accrescere l’angoscia di tutti i presenti, furono i più toccanti. Una ragazza incaricata alle onoranze funebri, lesse poche righe da un lezionario dove c’erano scritte molte frasi belle d’ascoltare, ma che nulla avevano a che fare con il tenero Ninì.
Quando finì e chiese se qualcun altro volesse leggere un’altra frase prima del commiato, le feci cenno con l’indice della mano destra che volevo farlo io, le dissi che il lezionario non mi serviva e come per incanto improvvisai il seguente discorso che nacque dal profondo dell’anima mia:
«Ninì si esprimeva con un linguaggio semplice, talvolta fatto di gesti semplici ma così espressivi che sapevano toccare i nostri cuori. Voglio ringraziarlo a nome di tutti noi, perché con la sua dolcezza ha saputo darci molto di più, di quanto noi siamo riusciti a dare a lui. Grazie Ninì! Ciao».
Non è stato un gran discorso ma, è significativo che l’abbia fatto io, in presenza di tante persone ed in quella particolare circostanza, senza farmi tradire dall’imbarazzo e tanto meno dall’emozione. A Ninì di certo è piaciuto molto, perché mentre sentivo scuotermi da diverse pacche sulle spalle, una voce proveniente dall’aldilà mi fece gli elogi.
Ero talmente immerso nella parte, che alcune donne mi abbracciarono calorosamente e non notai neanche chi fossero, ma gocce di lacrime che lasciarono sulle mie guance, mi svelarono che s’erano commosse.
Giufà ha scritto un libro
Giufà è un leggendario e popolare personaggio siciliano che fa sorridere con le sue incredibili storie di sciocchezze; ma che riesce a proporsi anche per saggezza, arguzia, originalità ed intelligenza.
Tuttavia al mio paese per Giufà s’intende uno che non ne combina mai una giusta, molti ragazzini se lo sentono dire senza un buon motivo ed io non potevo certo sfuggire a questa sciocca quanto simpatica definizione.
Certo ora quando ci penso mi faccio una bella risata e via, ma quand’ero ragazzino ci restavo male a sentirmelo dire e giuravo che un giorno mi sarei vendicato, però non sapevo né come, né quando avrei potuto farlo.
Intanto gli anni passavano veloci e ormai ne avevo circa sessanta, quando un giorno uno dei miei figli mi disse: «Visto che hai tanti fatti da raccontare perché non scrivi un libro?».
«Chi io? Perché non scrivo un libro? Ma dici sul serio o mi stai prendendo in giro?»
In realtà Giufà l’avevo ancora radicato nella mia testa e penso che volessi dirgli: «Chi io?» Perché non scrivo un libro? Ma figurati se Giufà potrà mai scrivere un libro!»
«Sì tu, perché non scrivi un libro?» Insistette.
Trascorse un bel po’ di tempo, durante il quale l’idea ogni tanto mi passava per la testa ed io in preda allo scoraggiamento puntualmente l’allontanavo velocemente. Ma un bel giorno ci ripensai seriamente e l’idea mi parve meno assurda delle altre volte: «A me leggere e scrivere è sempre piaciuto,» mi sono detto «perché quindi non provarci? Potrebbe essere l’occasione di rivincita che cercavo!»
Ma siccome sono cresciuto con l’insegnamento che lavorare conveniva più che saper leggere e scrivere una frase correttamente, sono arrivato all’età di sessant’anni senza riuscire a liberarmi di questo stupido complesso!
Ormai avevo rimosso il desiderio di leggere e scrivere e a tal punto che quando dovevo farlo, specie in presenza di altre persone, provavo un enorme disagio. Perciò anche se fossi riuscito a scrivere un libro come avrei potuto affrontare tutte le pratiche burocratiche che servono a farlo pubblicare?
E se poi mi avessero proposto di fare una presentazione e avessi intuito che mi avrebbero chiesto l’autografo e ancora peggio una dedica su qualche copia del libro, certamente non sarei stato capace di controllare l’ansia anticipatoria e sarei andato nel panico! Perciò vi lascio immaginare il mio senso di avvilimento.
Ormai nella mia testa c’era soltanto famiglia e lavoro, chi l’avrebbe mai detto che il mio disagio cercava di farmi capire che stavo soffocando i miei sogni, e che la soluzione del problema stava proprio nel fare ciò che mi piaceva fare: leggere e scrivere!
Ora partendo da questo presupposto ci pensate la reazione di tutte quelle persone che mi consideravano soltanto un gran lavoratore, quando scoprirono che avevo scritto un libro? Roba da oggi le comiche.
Così attraverso quello che mi dicevano o che non mi dicevano, tali persone a cui regalai una copia del mio libro, cominciai a conoscere meglio anche tutte quelle che credevo di conoscere bene.
Alcune delle citate persone infatti non mi dissero proprio niente! So che il silenzio nasconde storie interessanti, almeno quanto quelle che raccontano le parole e questo pensai che fosse un bell’argomento di analisi che ora mi accingo a fare.
Per prima cosa imparai che Giufà esiste veramente e ce ne sono talmente tanti che non riusciamo nemmeno ad immaginarlo. Ora vi faccio alcuni esempi di tutto ciò che mi è successo così capirete da soli che non sto esagerando: tante persone pensarono che regalando una copia del mio racconto Profumo Di Gelsomini, cercassi d’imporre loro un legame affettivo per ricevere una “carezza” o un complimento caritatevole.
Eppure nel libro mi sembra di averlo scritto molto chiaro che non amo essere commiserato. Molto spesso ci lamentiamo perché non riceviamo attenzioni, comprensione, affetto, ma da chi dovremmo riceverli se a lagnarci siamo noi stessi che ormai non sappiamo più essere altruisti? Assurdo! No?
Strada facendo ho scoperto che molte persone si vantano di essere lettori appassionati, soltanto perché tengono un libro sul comodino, ma in realtà non leggono affatto.
Ci sono poi quelle che non capiscono ciò che leggono ed altre che ciò che leggono lo capiscono ma, non ricordano nemmeno una frase di ciò che hanno letto ed altre ancora che, nonostante le apparenze, non sanno leggere affatto!
Altrimenti non saprei spiegarmi perché queste persone, dopo avere affermato di aver letto il mio libro e che gli è piaciuto tantissimo, mi chiesero:
«Quanti anni avevi quando è morta tua mamma?»
«Ma tu sei figlio unico?»
«Tua moglie è siciliana anche lei?»
«Quanti anni avevi quando sei arrivato a Torino?»
«Tuo padre ha sposato un’altra donna?»
«Ma vaffaunbagno, va’!…» Sì, avrei voluto rispondere proprio così: «Ma vaffaunbagno, va’…» Mah! Mi domando cos’hanno letto. Visto che tutto ciò che mi è stato chiesto è scritto molto chiaro, nel libro.
Poi ci sono state persone prevenute che mi dissero: «Hai scritto un libro? Tu hai scritto un libro? E da chi ti chi ti sei fatto aiutare?»
«Da tua sorella!…» Avrei voluto rispondere, ma mi “mordevo” la lingua per non essere scortese.
L’espressione del loro viso era talmente eloquente che sembrano dire: «Pensa quanto sarà interessante». Poveri Giufà!...
A qualcuno magari non è piaciuto veramente, in questo caso presumo che piuttosto che darmi un giudizio negativo, abbia preferito tacere e questo posso capirlo.
D’altronde anche se penso che avrebbero potuto apprezzarlo se non altro per il sacrificio che mi è costato scriverlo, visto che scrivere non è la mia professione e ho dovuto scavare fino a raggiungere la parte più profonda di me, non posso certo avere la presunzione di pensare che debba piacere a tutti quanti.
Che sia accaduto tutto ciò ritengo che sia normale, mi stupisco soltanto perché:
a) Tutte le persone a cui regalai una copia del mio libro mi assicurarono di essere lettori appassionati.
b) Ne regalai una copia soltanto a chi pensavo potesse essere interessato a tale lettura ed in grado di apprezzarlo.
Evidentemente in alcuni casi mi sbagliavo!
Però a qualcuno l’ho regalato soltanto perché sentivo come una specie di obbligo morale di doverglielo regalare, ma sapevo già a priori che quella era una copia sprecata. Quindi del suo silenzio mi sono compiaciuto, perché vuol dire che il mio intuito non mi aveva tradito.
Ci sono state persone che mi dissero: «Hai scritto un libro? Complimenti!» Complimenti per cosa dico io, ci si può complimentare con chi ha preparato una pietanza, prima ancora di avergliela assaggiata? Boh!
Un tizio per bene mi disse: «Me ne regali una copia? A me leggere piace tantissimo! Sai, non è che non possa acquistarlo ma riceverlo da te, con tanto di dedica, è tutta un’altra cosa!… Non credi? Stai tranquillo, non appena lo leggo ti farò sapere…»
Sto ancora aspettando!
Campa cavallo che l’erba cresce…
«Dopo che leggo il tuo libro ti scrivo una bella recensione», mi disse la moglie di un amico che stimo.
«Se lo farai mi farà piacere, a condizione che tu sia sincera», le risposi.
«Ci puoi contare!» Mi assicurò.
Poche ore dopo casualmente incontrai questo amico e mi confidò che la moglie, prima di uscire di casa, gli chiese: «Tu che lo conosci bene cosa mi consigli di fare, devo essere sincera? O gli scrivo un giudizio positivo per non mortificarlo?»
Mi sembra evidente che il libro dopo due ore non l’aveva ancora letto, quindi non aveva neanche preso in considerazione che forse e sottolineo forse, avrebbe potuto darmi un giudizio positivo ed essere sincera allo stesso tempo!
E pensare che la stimavo. Grazie per la considerazione che ha di me, pensai.
E dell’amico cosa dire? Facendomi quella confidenza non intuì nemmeno lontanamente quale conclusione avrei potuto trarre.
«Anch’io ho una bella storia da raccontare sai? Altro che la tua», fu il commento al mio libro, di una persona a cui sono affezionato.
«Ah! sì? E perché non la racconti?» Lo esortai.
A sentire lui non gli mancavano le capacità, non aveva il tempo per farlo naturalmente, altrimenti avrebbe potuto fare molto meglio di me. Posso dubitare che qualcuno non possa fare meglio di me? No! In fondo basta così poco…
Infine, per non dilungarmi troppo, un parente caro mi disse: «Molte persone non ti hanno detto e non ti diranno mai niente perché, per quanto assurdo possa sembrarti, sono gelosi». «Ma gelosi per cosa?» Gli chiesi stupito.
«Perché tu sei riuscito a fare ciò che loro nonostante siano diplomati o laureati non riuscirebbero mai a fare! Ricordati che ci sono persone invidiose anche tra quelle che meno ce l’aspetteremmo, io ti ribadisco i miei complimenti e ti garantisco che sono sinceri!»
Però ci sono state belle persone che l’hanno apprezzato moltissimo ed ho ricevuto decine di lettere, soprattutto da donne, che hanno voluto manifestarmi il loro affetto sincero, ed i loro giudizi sono stati unanimi:
«Bello, scorrevole, si legge tutto d’un fiato, mi hai fatto ritornare indietro nel tempo e mi sono emozionata tantissimo, scrivi come parli e mentre leggevo mi sembrava di sentirti parlare di presenza!» E questo mi da consolazione, perché vuol dire che scriverlo non è stato un atto di presunzione!
Pasqua 2015
A Pasqua mentre facevo colazione in hotel, a Firenze, sentivo squillare un telefonino, continuavo a guardare intorno e nessuno rispondeva, mah! Poi è arrivata mia moglie che si era alzata per andare a prendere dei frutti di bosco al buffet e le ho detto: «Strano, è da un po’ che “strilla” un telefono e nessuno risponde!»
«E ci credo che nessuno risponde,» mi rispose lei “garbatamente”, «è il tuo telefono! Neanche la tua suoneria riconosci?»
Nel frattempo il mio cellulare aveva smesso di suonare.
Naturalmente tutti i vicini di tavolo che già, avendo visto che non rispondevo pensavano che fossi sordo ed erano perplessi, si misero a ridere ed io traducendo ad alta voce il loro pensiero, gli dissi: «Scusatemi ma sono rimasto all’antica, non ho un buon rapporto con il cellulare».
Ogni tanto è bello che riesca a non prendermi troppo sul serio e a ridere di me stesso. Ma questo è un comportamento talmente raro che alcuni adulti mi scrutarono sospettosi e curiosi di capire se dicevo sul serio o se invece li stessi prendendo in giro e molti ragazzi che “si nutrono” di onde elettromagnetiche si misero ad armeggiare con i loro smartphone, per dimostrarmi quanto erano bravi in materia.
E devo dire che effettivamente lasciano a bocca aperta, perché digitano i tasti mentre fanno qualcos’altro e guardano da un’altra parte; ma cercare di spiegargli che loro usano quell’aggeggio per giocarci o per sentirsi importanti ed io, salvo distrazioni, soltanto per il necessario penso che sarebbe stato tempo sprecato!
E meno male che il mio cellulare non l’hanno visto da vicino, perché il figlio di un amico di Casteldaccia lo scorso mese di Agosto quando lo vide, mi disse: «Ciccio, certo che vivi a Torino da una vita ma sei rimasto più arretrato dei vecchi del nostro paese, dove l’hai trovato quell’affare della prima repubblica, dal rottamaio?»
«Tutt’altro,» gli risposi «l’ho comprato da Media World, diciannove euro e cinquanta».
«Diciannove euro e cinquanta?» E si fece una bella risata sarcastica: «Ah! Ah! Ah! Ah! Ma si accende almeno?» Mi domandò con un tono che sapeva di disprezzo.
«Altroché!» Gli risposi «Non solo si accende, ma invia e riceve persino messaggi e soprattutto ha un pregio che il tuo iPhone, per tanto innovativo che sia, non ha: i soldi per comprarlo li ho guadagnati con il mio lavoro, non li ho chiesti ai miei genitori».
Un po’ mi è dispiaciuto quando l’ho visto arrossire e palesemente a disagio, ma in un certo senso la lezione se l’era meritata, poteva evitare anche lui di fare lo sbruffone.
Poi ho visto che a cercarmi era stato un certo Giuseppe e così l’ho chiamato io. Anzi, l’ha chiamato mia moglie: «Aspetta,» mi disse «lo chiamo io con il mio telefono e poi te lo passo, altrimenti tu chissà cosa combini». Le mogli con i mariti sanno essere sempre così sensibili e fiduciose!
Intanto avevo realizzato che Giuseppe era un mio cugino di Casteldaccia. Per forza che non c’ero arrivato subito, tutti quanti lo chiamiamo Pinuzzu! Sapevo che doveva farsi operare alle ginocchia, ma non sapevo che, a uno, l’avesse fatto da pochi giorni e non stava per niente bene.
Mi disse che il ginocchio operato gli faceva un male cane, che la notte non riusciva a dormire, che camminava con le stampelle, che un male così non l’augurava neanche al suo peggior nemico, che non potendo uscire di casa si sentiva agli arresti domiciliari ed era molto demoralizzato.
Così per evitare che lui continuasse con quel fare lamentoso e che la telefonata diventasse troppo malinconica, gli ho detto: «Dai su, non fare così che quelle tutte minchiate sono, adesso ti faccio ridere io».
«’Ca ’nta stu mumentu sarà difficili ca tarrinesci ri farimi rririri!» Mi rispose un po’ abbacchiato. Invece dopo che ho finito di raccontargli ciò che mi era successo con il telefonino, gli sono passati tutti i mali e sorrise come un matto!
Nel primo pomeriggio abbiamo pranzato in un localino caratteristico di Fiesole, località residenziale di Firenze, città dell’arte. Ad un certo punto mi sono trovato alle prese con una fiorentina molto seducente ed è stata una piacevolissima “faticaccia”.
Prima di entrare avevo visto che esposte in vetrina ce n’erano tante ed era tutta carne fresca… ovviamente ho scelto la più bella!
Mia moglie era dubbiosa che riuscissi a venirne a capo, mi guardava con un’espressione che sembrava dire: «Sono proprio curiosa di scoprire cosa riesce a fare!» E allora le ho detto: «Non preoccuparti, se mi trovo in difficoltà ce la dividiamo un po’ per uno». E sapete cosa mi rispose? Che quasi quasi, l’idea non le dispiaceva affatto. Però! Anche lei con la fiorentina...
Anch’io non ero tanto sicuro di farcela, trent’anni fa non mi sarebbero bastate una valdostana, una milanese ed una palermitana contemporaneamente ma ora, alla mia età, si capisce che mi difendo come posso. “L’ho cominciata a Pasqua e a momenti la finivo a Pasquetta”.
Però ce l’ho fatta! Era così attraente che la ricorderò per sempre.
Beh? Cos’è quell’espressione maliziosa che vi si legge in faccia? Intendevo dire una bistecca alla fiorentina ed altre bistecche che sono specialità di altrettante città italiane! Cosa avevate capito?
A Firenze, siamo andati in treno e abbiamo girato in bus turistici “Official Tour City Sightseeing Firenze” e a piedi per svariati chilometri. Se penso ai problemi che ha questo mio caro cugino a camminare, credo sinceramente di essere più che fortunato. Spero di continuare ad apprezzare e di meritare ciò che la natura e la vita mi hanno dato.
Pasqua 2016
Oggi è il 55° anniversario del mio arrivo a Torino, allora era Pasquetta ora è Pasqua. A me però sembra che sia stato ieri, è incredibile come certi ricordi rimangano impressi nella nostra memoria per sempre.
Sarei in grado di riconoscere i volti dei passeggeri che in treno viaggiavano con me nel medesimo scompartimento, soprattutto quello di una ragazzina che con la sua dolcezza rese meno triste il mio distacco dagli affetti che lasciavo a Casteldaccia.
Avrei potuto chiederle se a Torino potevamo vederci, lei non aspettava altro ed io l’avevo pure capito, ma ero troppo impacciato, o forse completamente preso da altri pensieri e non osai chiederle se mi lasciava il suo indirizzo!
Avevamo viaggiato insieme un giorno intero, durante la notte lei aveva dormito con la sua testa appoggiata alla mia spalla ed io pur di lasciarla riposare mi tenevo il formicolio che mi era venuto al braccio, senza fiatare…
Nei giorni seguenti mi ero chiuso in me stesso, pensando solo e soltanto a lei e sperando di poterla incontrare: chissà forse avrei trovato il coraggio per dirle che mi piaceva, credevo che sicuramente anche lei aveva pensato solo e soltanto a me.
Invece un mesetto dopo la rividi ai Giardini Reali ed era già insieme ad altri ragazzi; ci rimasi male!... Cominciai così a scoprire il prezzo della delusione. Ma quando perdiamo un treno è inutile stare a recriminare, tanto non torna indietro.
Meglio aspettare serenamente che ne passino altri, il guaio è che io su quel treno c’ero ed è per questo motivo che non riuscivo a farmene una ragione, l’avevo perso pur avendoci viaggiato per un giorno intero.
A Chiara e Gabriella
Grazie per le belle parole di risposta alla mia mail. Freud diceva che niente succede per caso, però preferisco non anticiparvi altro perché le ragioni per cui sono stato originale in una circostanza tanto spiacevole, tu e la tua mamma, le scoprirete da voi stesse, in parte da ciò che dirò più avanti e in parte leggendo il mio libro, che sono riuscito a spedirvi oggi.
Neanche la tua risposta alla mia prima mail sarà stata casuale, Chiara; penso che da quel poco che tuo papà vi raccontava del suo lavoro, probabilmente in un “cassettino” della tua memoria custodivi qualche piacevole ricordo che riguardava me e questo ti ha suggerito che ero meritevole di ricevere una tua risposta tanto intima e incresciosa.
La tua risposta, anche se mi svelava una notizia mesta, era confidenziale e formulata con molta dignità, perciò per me è stato come ricevere un privilegio e questo mi ha reso particolarmente sensibile e partecipe al vostro dolore per la perdita del tuo caro papà, ma le premesse perché ciò accadesse, come capirai le avevi create tu. L’intuito di una donna non tradisce mai!
Guarda un po’ quanto sono sbadato Chiara, mi accorgo solo ora che istintivamente ti sto dando del tu, forse inconsciamente desideravo farlo perché credo che sia meno formale e distaccato, perciò non lo correggo. Anzi se la cosa non vi crea disagio potete chiamarmi anche voi semplicemente Francesco, come faceva il tuo caro papà e fanno tutti quanti.
A questo punto, visto che ho deciso di darti del tu, non posso che concludere con un caro abbraccio per te e la tua mamma e salutandovi con un cordiale ciao.
Quando ho conosciuto il vostro caro Maurizio, non attraversavo un bel momento, ancora non ero riuscito a superare i disagi dovuti a due attacchi di panico e anche il semplice compito di andare in qualche ufficio era per me un problema serio. Al pensiero che mi sarei trovato chiuso in uno stanzino da solo a dover parlare con un impiegato di banca, mi prendeva un’ansia che non sempre riuscivo a controllare.
Ero angosciato al pensiero che avrei dovuto compilare un modulo, firmare un documento e poteva succedere che non riuscissi a gestire l’agitazione; e siccome qualche volta sono stato deriso, ben mi guardavo dal parlarne con qualcuno, e mai avrei pensato di poterlo fare. Il vostro caro Maurizio invece veniva Lui da me e questo era già di per sé un bel vantaggio psicologico. Ma c’è di più: con Lui sono riuscito a confidarmi!
Dopo averlo fatto percepivo che qualcosa di straordinario in me stava succedendo, ormai avevo svelato le mie paure, perciò non avevo più nulla da dimostrare ed è stato come una liberazione! Ho iniziato così, a scoprire che parlarne con qualcuno che mi capisse e fosse comprensivo era estremamente terapeutico! Il prosieguo avendo letto il mio libro lo conoscete già; è perciò che la triste notizia della sua scomparsa mi commosse!
Sarebbe stato bello poter condividere con Lui il piacere del mio prodigioso cambiamento. Conoscendolo sono sicuro che sarebbe stato contento di sapere che sono riuscito a superare tutte le mie paure. Riuscirci è stato tutt’altro che semplice e a maggior ragione mi rende orgoglioso! Penso comunque che non devo disperare, perché certamente il vostro caro Maurizio avrà trovato il modo per apprendere questa bella notizia!
Vi auguro un mondo di bene e vi mando caro saluto.
A Cristina,
I° Sogno, inizio Settembre 2013
Ero a casa sua, giocavo con i suoi bambini e lei continuava a fare i suoi lavori domestici.
Io osservavo la sua espressione compiaciuta e serena ed ero contento.
Il sogno finì senza che ci scambiassimo una parola.
Interpretazione:
Sono fiero dei miei figli e di Simona, ma in questi anni in cui ho avuto il privilegio di conoscerla, mi è capitato spesso di pensare a quanto sarebbe stato bello avere una figlia o una nuora come lei.
Può darsi che questo desiderio l’abbia realizzato nel sogno. No?
Lei ha pensato che, con le sue confidenze personali, mi ha portato a casa sua. Anche la sua interpretazione può essere possibile!
II° Sogno, Venerdì 15 Novembre 2013
Lei stava sbavando un particolare di metallo ed io le insegnavo come usare la moletta, per evitare che si facesse male.
Poi eravamo nel suo studio, lei era incinta ed io le dissi: «Però, a distanza di due settimane ora si vede benissimo».
Lei mi rispose: «Devo partorire ad Ottobre».
Nel sogno, Ottobre sarebbe arrivato un paio di mesi dopo, quindi eravamo verso fine Luglio, inizio Agosto.
Io pensai che questa volta la cosa non mi avrebbe creato particolari problemi, il riferimento alla sua maternità di Elisa mi sembra fin troppo chiaro.
Alla seduta arrivai tardi!… E perciò la tranquillizzai dicendole: «Non si preoccupi, facciamo quello che possiamo».
Poi mi cambiai dietro un paravento dello studio, intanto ricordai che era Lunedì le chiesi: «Cosa sono venuto a fare oggi? Non è Mercoledì!»
Il sogno finì così, non ci fu animosità, eravamo sereni entrambi.
Interpretazione:
Penso anch’io che abbia che fare con il mio lavoro, sto orientando nuovamente le mie attenzioni su di esso.
Il momento è quello che è, e anche se continuiamo ad avere tanto lavoro è bene non abbassare la “guardia”.
Se qualcosa dovesse andar male potrebbe ripercuotersi, negativamente, sul mio morale e compromettere l’ottimo lavoro terapeutico fatto insieme a lei.
III° Sogno, Venerdì 22 Novembre 2013
Durante la seduta lei si addormentò con la guancia appoggiata al bracciolo destro della sua poltrona.
Io pensai che fosse provata dai suoi problemi familiari, che si ripercuotevano sulla sua professione e nei suoi confronti ero tollerante, comprensivo e lasciai che riposasse.
Avevo un atteggiamento paterno, non mi preoccupai minimamente della seduta e cercai di riposare anch’io; appoggiai il gomito sinistro al centro del bracciolo della mia poltrona e la mandibola al palmo della mia mano, semi aperta, corrispondente.
Poi camminavo per la strada, ero in mutande e maglietta “della salute”.
Dopo mi trovai in un negozio ortofrutticolo dove c’era un cesto natalizio che conteneva frutta bellissima, dal quale ne era stata venduta una piccola parte.
In particolare ricordo un grappolo d’uva bianca di rara bellezza. Io cercai di ricompletare il cesto con dell’altra frutta altrettanto bella che avevo visto passando.
Il cesto era molto pesante e per portarlo a casa mi feci aiutare da uno di due signori che incontrai per la strada e mi sembrò parente o conoscente. L’altro era estraneo.
Nel negozio il proprietario non c’era, quindi non pagai la frutta e nemmeno me ne preoccupai. Poi tornai in studio, l’ingresso era lo stesso e lo studio anche, però era meno bello.
Lei era nel bagno, che si trovava a sinistra dell’ingresso, stava davanti allo specchio, aveva i capelli spettinati, l’aspetto di una donna affaticata, era serena e si stava sciacquando.
Io le chiesi se andava tutto bene e lei mi rispose: «Adesso sì, ho fatto la cacca!» Per la verità non disse proprio così, usò un altro termine che non ricordo e mi stupì molto che l’avesse usato.
Infine lei si è lamentò che il proprietario dello studio non le riparava un guasto nel bagno e qualcos’altro. Il sogno finì mentre le dicevo: «È inutile che continui a lamentarsi, lo sa bene che quell’uomo è inaffidabile!»
Interpretazione:
Curiosamente, non mi era mai successo, nel sogno cercavo di interpretare il medesimo sogno.
Ero felice di essere stato comprensivo con lei, associavo l’uva bianca alla vendemmia e pensavo che io stavo raccogliendo i frutti del lavoro psicoterapeutico e lei stava pagando lo sforzo fatto per aiutarmi ad ottenere l’ottimo risultato.
Un giorno passando fra le bancarelle del mercato di San Mauro vidi dell’uva nera, lì per lì non le diedi molta importanza, ma un particolare assai significativo che ricordai pochi minuti dopo, mi face capire che l’uva bianca, nel sogno, era un bel segno rassicurante.
Mio papà diceva che l’uva nera gli portava sfortuna, perché suo papà e zia Giovanna erano morti dopo che aveva mangiato un grappolo d’uva nera, e in una circostanza analoga gli si era azzoppata pure l’asina!
Credevo che per me questo particolare fosse morto e sepolto, invece l’aver sognato l’uva bianca di rara bellezza mi fece capire che non l’avevo dimenticato affatto e che consideravo l’uva bianca portatrice di bene e l’uva nera portatrice di male.
Più che un’asina, quella di mio papà, sembrava una puledra, elegante nell’aspetto e agile nei movimenti. Lui andava a piedi pur di non affaticarla, tanto ne era “innamorato”, credo che dedicasse all’asina le attenzioni che non poté dedicare a mia mamma.
Ragion per cui non è assurdo che mio papà abbia accostato l’episodio dell’asina, con la morte di suo papà e zia Giovanna, perché le era affezionato quanto a una persona cara.
Quando lei mi disse che aveva defecato, sempre nel medesimo sogno, mi venne in mente quello che le ho scritto e ci siamo detti nelle ultime sedute e ho pensato che l’avessi aiutata a liberarsi di un problema. Ma questo può darsi che dipenda anche dal fatto che l’ho pensato durante l’ultima seduta.
Del resto, alla fine di una delle prime sedute, se ricorda bene le avevo detto: «Indipendentemente dal fatto che pago le sedute, mi piacerebbe riuscire a ricambiare il suo aiuto, con un contributo capace di accrescere la sua esperienza professionale!…»
Vuole che non ci riuscissi almeno nel sogno?…
Ora se buona parte del sogno l’ho interpretata nel medesimo sogno e sembra avere un senso logico, l’ultima parte non riesco proprio a capirla.
Perché si lamentava per i guasti non riparati? E chi sarebbe questo proprietario inaffidabile? boh!
Ci sono! L’ho capito alla fine della seduta in cui lei mi chiese se fossi geloso e io le risposi che forse lo sono ma mi guardo bene dal farlo notare!
Il mattino che sono venuto per la terza seduta nel suo nuovo studio, al citofono mi rispose il suo coinquilino e subito pensai di aver sbagliato campanello e di aver suonato in quello di qualche proprietario che abitava in quel palazzo.
Ad ogni modo dato che mi aprì il portoncino d’ingresso entrai, ma quando vidi che affacciato alla porta dello studio ad aspettarmi c’era quell’uomo, e non lei, sono stato colto da un attacco di gelosia!
Il buon senso mi disse che non avevo nessun diritto di essere geloso di lei e tantomeno di lui, quindi lo salutai cordialmente ed ero veramente convinto di aver superato il problema e che avessi archiviato il caso.
Invece nel sogno, pur di mettermi in evidenza e farmi bello ai suoi occhi, screditavo quel “poveretto” e addirittura lo definivo inaffidabile!
Per cui non ho dubbi, il proprietario inaffidabile del mio sogno era proprio il suo coinquilino, perché è lui che pensai fosse un “proprietario” quando mi rispose al suo citofono.
Un po’ mi vergogno però, non pesavo che sarei stato capace di nutrire sentimenti tanto negativi nei confronti di altri, e meno che meno di arrivare a calunniare una persona che era stata tanto gentile da aprirmi e farmi accomodare in attesa che lei arrivasse.
Scherzi dell’anima!
Ho pregato per suo papà, anche se non lo conoscevo e non so nemmeno come si chiamava, ma so che avrà sofferto tanto e forse era pure cosciente di ciò che l’aspettava.
Ho pregato per suo papà, perché so che sarà stato un buono, un compagno fedele, un bravo papà, un nonno adorabile, un amico leale e sincero.
Capisco il grande dolore che lei si porta dentro e quanto dev’essere stato struggente stargli vicino, sapendo che si sarebbe spento inesorabilmente.
Ora “prego” per lei, affinché non si deprima tanto e riprenda a fare una vita normale, prima possibile. Forse è tempo che faccia qualcosa io per aiutare lei!
Allora le dico di continuare a fare il suo lavoro con entusiasmo, perché è la cosa in cui crede profondamente e non potrà, non deve, rinunciarci facilmente.
Di continuare ad essere la moglie ideale che credo sia sempre stata e una mamma serena e affettuosa come i suoi figli desiderano che sia.
Di continuare ad essere la brava figlia che credo sia sempre stata: regali un sorriso alla sua mamma, così le farà coraggio, sarà meno triste e non starà in pena anche per lei.
Credo che anche suo papà, se potesse, le direbbe le stesse cose; altrimenti i suoi pazienti, suo marito, i suoi figli, la sua mamma, lei stessa e tutti quanti ne risentiremo.
Le ho detto che speravo di non aver detto o fatto qualcosa di sbagliato, ma era una scusa perché qualcosa su suo papà avevo sospettato e volevo dirle che le sono vicino.
Le ho detto che potevamo programmare alcuni incontri come lei mi aveva suggerito, ma era una scusa per dirle di presenza che le sono vicino.
Ci sono però pazienti che hanno ancora bisogno di lei, che confidano nel suo aiuto per liberarsi dagli incubi delle notti in cui sognano di essere travolti da fiumi straripanti!...
Non li deluda, così anche lei starà meglio e suo papà, che sarà presente in ogni momento della sua vita, i suoi pazienti e tutti quanti, continueremo ad essere orgogliosi di lei.
Spero che stia bene, io sto benissimo. È da un po’ che non ci sentiamo e perciò ho deciso di scriverle due righe; so che non ha molto tempo e dato che non voglio approfittarne le dico subito di non preoccuparsi, non è necessario mi scriva un “romanzo” come faccio sempre io; quando può, basta che mi risponda con un semplice messaggio di poche parole, faccia lei.
Grazie per avermi definito, anche lei, nella sua ultima mail una persona speciale; a furia di sentirmelo dire finirà che ci creda veramente. C’è di bello che a fare un complimento a me non si corre il rischio che mi monti la testa, perché piuttosto che deludere preferisco sorprendere positivamente e so bene che la qualità migliore per riuscirci è l’umiltà.
Tra le altre cose, insieme a lei, ho imparato che gli psicologi prima di tutto sono persone, con tutte le sicurezze e le debolezze di noi umani e quando ho letto che suo papà le manca tutti i giorni mi sono commosso. So cosa vuol dire perdere un genitore, ma con il tempo imparerà che il suo caro papà non ha mai cessato e non cesserà mai di starle vicino.
Io con tutti i miei cari defunti ora ci parlo continuamente e siccome non sarebbe lodevole mentirgli, anche se adesso sono diventati molto più tolleranti, cerco di fare del mio meglio per non avere notizie sconvenienti da raccontargli. Specialmente mia mamma, era felice di aver dato alla luce un maschietto e non desidero che abbia qualche motivo per essere scontenta.
Ormai parliamo di tutto, persino di argomenti che prima ci mettevano a disagio, ora tra di noi c’è maggiore sintonia ed il nostro rapporto è così pieno di complicità che mi permette di viverlo con una piacevole e sorprendente pace interiore. Ho scoperto di amarli più di quanto pensassi e quando parlo con loro mi sento sereno e felice.
Mi auguro che nell’attività di suo papà ci fosse una persona di famiglia, che abbia saputo sollevarla, almeno, dai molteplici problemi di ordine burocratico che sicuramente le si saranno presentati. Dispiace perdere quello che un genitore ha costruito con tanti sacrifici e immagino che, suo malgrado, si sarà trovata a dover risolvere anche spiacevoli faccende economiche.
Dico spiacevoli perché in certi momenti non è bello parlare di eredità, tassa di successione e quant’altro; si prova una sensazione, come posso dire… di riluttanza? Sì! Di riluttanza a farlo, perché sembra di anteporre gl’interessi economici agli affetti che, secondo me, dovrebbero stare sempre al primo posto e sono certo che anche lei la pensi allo stesso modo.
Ma sarebbe altrettanto spiacevole e sciocco non difendere quello che ci spetta di diritto e se lei è riuscita a farlo sicuramente suo papà avrà apprezzato e sarà felice di sapere che niente è stato perso. L’amore che provava per lei e la certezza che i suoi sforzi per darle il meglio che potesse non sono stati inutili, certamente l’hanno reso orgoglioso della figlia.
Durante una seduta lei mi disse che scrivere un libro è sempre stato il suo sogno, quando lo realizza non manchi di regalarmene una copia con dedica, perché sono curioso e saprò essere il suo lettore più interessato. Non è che con questo intenda essere il suo paziente privilegiato, ci mancherebbe, ma senza dubbio sarò quello che saprà apprezzarlo di più.
Il mio percorso di crescita non è terminato con la fine delle sedute di psicoterapia, anzi, quelle sono state un bel punto di partenza dal quale continuare con risorse più appropriate!
Dal nuovo dentista che, oltre ad essere un tipo molto professionale, utilizza tecniche e macchinari all’avanguardia in campo odontoiatrico, mi sono fatto curare il premolare N° 15 e il molare N° 17 della semiarcata superiore destra e il premolare N° 25 e il molare N° 26 della semiarcata superiore sinistra, in modo risolutivo.
È stato un lavoro molto lungo, poiché un dente l’ha dovuto devitalizzare e completare con una tecnica di odontoiatria estetica chiamata intarsio, due erano da ricostruire e uno che si era spezzato in prossimità della gengiva l’ha dovuto togliere e sostituire con un impianto.
Infine, su ciascuno dei due denti ricostruiti per evitare che potessero spezzarsi ancora una volta, ha messo una capsula in ceramica, di colore identico a quello dei miei denti naturali.
Pensi che per ricostruire un dente non usa materiale di riporto (amalgama) come faceva il mio vecchio dentista, ma con uno scanner intraorale 3d dotato di un software sofisticato fa la scansione della parte di dente mancante e poi con una stampante tridimensionale costruisce il pezzo di dente che si sposa perfettamente al rimanente del dente esistente!
Ho affrontato il tutto con la spensieratezza di chi va a prendere un aperitivo al bar e con l’entusiasmo di chi è contento di prendersi cura di se stesso. Adesso mi mancano soltanto i denti del giudizio che i dentisti chiamano anche terzi molari, li identificano con i numeri 18, 28, 38 e 48 e li considerano ininfluenti. Tutti gli altri li ho perfettamente funzionanti.
Circa sette mesi dopo, quando il dentista ha finito, quasi mi dispiaceva che non dovevo più andare, perché andando dall’odontoiatra ho imparato tante cose nuove e a tal punto che tanto lui quanto i suoi collaboratori: igieniste, assistenti, odontotecnici, impiegate, ecc. mi hanno chiesto se stavo studiando odontoiatria e mi hanno definito un paziente modello!
L’unico a cui non è mai stato necessario inviare un messaggio o una mail di promemoria, per ricordargli il giorno e l’orario di un appuntamento.
Con lo stesso entusiasmo, il cinque Dicembre, ho affrontato l’intervento chirurgico per risolvere il problemino al mio dorso nasale. Quando sono entrato in sala chirurgica, dopo avere indossato gli appositi indumenti sterili, al Dottore, specialista in dermatologia oncologica ho detto: «Anzitutto buongiorno a lei e ai suoi assistenti, Dottor Roberto, e poi mi raccomando di fare un bel lavoro di chirurgia estetica perché sono ancora giovane!» Tutti quanti si sono messi a ridere…
Quando ha finito, con fare scherzoso, mi disse: «Et voilà, le abbiamo fatto un bel naso fotogenico! Può essere contento, tanto più che si trattava semplicemente di un neo cresciuto sopra una ghiandola sebacea, per cui, anche se aspettare l’esito dell’esame istologico è d’obbligo, direi che può prepararsi a trascorrere un bel Natale tranquillo!»
Cos’altro dire? Le due fotografie che le invio insieme a questa lettera, via mail, penso che siano più che sufficienti. La prima me la sono scattata da solo, (nessuno aveva il coraggio di guardarmi il maso) due giorni dopo l’intervento, quando ho tolto il loro cerotto per fare la prima medicazione, la seconda me l’ha scattata mia moglie una quindicina di giorni fa.
Nel frattempo il mio naso è migliorato ulteriormente e presumo che fra qualche mese non si vedrà più niente.
A Jessica e Silvia,
Sono Francesco, il “tipo” che, insieme alla moglie, la sera ordinava Coca-Cola o Acqua Tonica per mangiarsi il limone e con tutta la buccia! Vi domanderete come ho fatto a sapere il vostro nome e tutto il resto, ma quando desideriamo fare una cosa e ci mettiamo buona volontà, non c’è niente che possa impedirci di farla. In realtà è stato molto semplice: mi sono rivolto telefonicamente a Cristina, la commessa del negozio L’Antico Frantoio.
Volevo ringraziarvi per avermi salutato con i bacetti perché, anche se sfacciatamente ve l’ho chiesto io, non vi nascondo che mi avete fatto sentire ugualmente più giovane di una quarantina d’anni! Ho provato la stessa identica emozione che provavo da bambino, quando le ragazze del mio paese mi gratificavano con un bacetto, per il motivo che troverete scritto a pagina 22 del mio libro Profumo Di Gelsomini.
Immagino che rimarrete sorprese quando scoprirete che ho scritto un racconto, e spero che sarete anche liete che ho deciso di regalarvene una copia ciascuna. Quando avete un po’ di tempo, mi farebbe piacere sapere se l’avete ricevuto, e dopo averlo letto (perché sono sicuro che sarete curiose di leggerlo) cosa ne pensate. A condizione che dirmelo faccia piacere anche a voi e non lo farete soltanto per far piacere a me.
Potete farlo semplicemente inviando una mail al seguente indirizzo di posta elettronica: fmontesanto@libero.it Oppure inviandomi un semplice messaggio al seguente numero telefonico: 349-4018489. Intanto voglio complimentarmi con voi per i deliziosi stuzzichini che sapete preparare. Mia moglie ed io non li abbiamo mai presi, ma quando li vedevamo nel tagliere in cui li servite, ci facevano ingolosire proprio tanto.
Alcune sere siamo stati tentati di saltare la cena, in hotel dove soggiornavamo, pur di venire ad assaggiarli e ora che siamo tornati a casa ci dispiace di non averlo fatto. Ma venire a mangiare i vostri stuzzichini potrebbe essere una buona scusa per tornare a trovarvi; e chissà che non possa rimediarci anche un abbraccio. Confesso che ne sarei lusingato. Mi fa piacere quando riesco ad instaurare un rapporto amichevole con i giovani.
A Simona,
Mi ha fatto piacere ricevere la sua mail. Grazie per avermi definito, anche lei, speciale. Come ho già detto alla mia psicologa a furia di sentirmelo dire finirà che ci creda veramente, ma per fortuna a fare un complimento a me non si corre il rischio che mi monti la testa. Piuttosto che deludere preferisco sorprendere positivamente e so bene che la qualità migliore per riuscirci è l’umiltà.
A mio modo anch’io mi sento privilegiato, perché senza i miei trascorsi forse non avrei sviluppato la necessaria sensibilità per capire che lei era la persona giusta a cui regalare una copia del mio libro e avrei fatto male: mica tutti i vicini di ombrellone sono uguali… solo una parte sanno trasmetterci la sensazione di familiarità; credo che sia una questione di affinità elettiva. Con alcuni ci s’intende di più!
Adesso la faccio ridere un po’: mentre stavo disteso nel lettino vicino a lei ho pensato che forse è il mio destino “dormire” accanto ad una bella donna ed essere “veramente educato”. Nel momento in cui facevo questa riflessione ridevo da solo come uno scemo! Avrei voluto dirglielo ma, sarebbe stato troppo complicato da spiegare; ora invece le sarà facile capire a cosa mi riferisco e sono certo di non essere frainteso.
Noto con piacere che anche lei ama sorprendere: ché si chiama Scirea e non dice niente? Per noi simpatizzanti della Juve, immagino che lo sappia cosa rappresenta il nome Scirea... In ogni caso le dico che a Gaetano Scirea è stata intitolata la curva della tifoseria juventina! Per cui tragga lei le conclusioni. Ricambio il cordiale saluto per lei e suo marito e le mando un caro e affettuoso bacetto per Viola e Susanna.
Alice la perspicace
Alice è una bambina molto sensibile, socievole, espressiva e soprattutto intelligente. Ho molto da imparare da lei e tutte le volte che posso ne approfitto per giocarci insieme.
Alice è anche una bambina estremamente intraprendente e perciò stabilisce lei a cosa giocare e le regole del gioco. Io mi limito a svolgere al meglio la parte che mi assegna e devo dire che il più delle volte ci riesco bene, tant’è che con espressione di meraviglia, sovente mi dice: «Bravo nonno!»
Ma un giorno, quando aveva circa quattro anni, come un fulmine a ciel sereno mi disse: «Nonno balliamo la baby dance?»
«La baby che?» Le chiesi sconvolto.
«La baby dance, balliamo la baby dance?»
«Vuoi dire il ballo dei bambini?»
«Eh, la baby dance, dai nonno cantiamo e balliamo il Pulcino Pio!»
Oddio! A questo non avevo pensato e vi lascio immaginare con che imbarazzo le spiegai che non ero capace. «Mamma, mamma, il nonno non sa cantare il Pulcino Pio e ballare la baby dance!» Disse a mia nuora Simona, con un pizzico d’innocente civetteria.
Così pur di stupirla, un mesetto dopo, durante le ferie in Sardegna, ho passato tutte le serate ad esercitarmi con i bambini e gli animatori dell’hotel dove soggiornavamo, per imparare canti e balli della baby dance.
Al ritorno dalle vacanze, una sera senza dirle niente mi sono messo a cantare il Pulcino Pio e a ballare la baby dance insieme a lei! Rimase sorpresa, si fermò un attimo, guardò mia moglie fissa negli occhi e con una mimica felice, le disse: «È capace!»
Perciò mi raccomando nonni, non fatevi trovare impreparati dai vostri nipotini e non preoccupatevi se vi sembrerà di essere un po’ goffi, perché loro vi apprezzeranno comunque e tutto cambia se un nonno sa o non sa cantare il Pulcino Pio e ballare la baby dance!
Ieri c’era un bel sole di fine estate e con mia moglie abbiamo portato la nostra nipotina Alice, di cinque anni, a fare una bella passeggiata. «Basta che ci dai la mano e non cerchi di scappare,» le abbiamo detto.
«Allora siete proprio imbranati!» Ci rispose. Penso che volesse dire apprensivi.
«Non siamo imbranati, siamo più grandi di te e conosciamo pericoli che tu ancora non conosci,» le ho detto.
«Va bene, prometto che non scappo».
Naturalmente essendo ancora una bambina la sua è stata una promessa da marinaio, per fortuna riesco ad acciuffarla dopo il primo scatto.
Ad un certo punto, mentre camminavamo tranquillamente, ci disse: «Peccato che l’altro nonno è andato in cielo altrimenti avrei potuto giocare anche con lui!»
Dato che non ho conosciuto mia mamma pensavo di essere la persona più indicata per darle una risposta appropriata, invece tutto ciò che ho saputo dirle è stato: «Pazienza Alice, cosa possiamo farci?»
«Ma come pazienza!» Mi disse lei con un tono che sapeva di disapprovazione.
Così ho capito che una risposta più sciocca di quella che le ho dato non potevo darle. Avrei potuto dirle, ma non sono sicuro che lei l’avrebbe apprezzato: «È veramente un peccato Alice, perché sarebbe stato bello anche per noi, poter giocare a dama e scopa con lui». Ma lei è una bambina estremamente imprevedibile e riesce sempre a cogliermi impreparato.
Nella mia condizione di orfano una cosa però l’ho imparata: mia mamma, anche se non l’ho conosciuta, è stata sempre presente in ogni momento della mia vita, pertanto penso che anche il mio consuocero sarà sempre presente in ogni momento della vita di Alice.
Perciò, io non dovrò mai commettere l’errore di pensare che sia il suo unico nonno e lei spero che non idealizzi troppo il nonno materno, che purtroppo non ha conosciuto e continui a godersi tutto l’affetto che desidero darle io.
Un giorno Alice, mentre giocavamo nel soggiorno di casa mia, mi disse: «Nonno facciamo che il soffitto è il cielo, la piantana è il sole, il tappeto è la spiaggia, il pavimento è il mare e le poltrone sono le sdraio dove prendiamo il sole, va bene?»
«Mi sembra una bella idea Alice,» le risposi «però mancano gli ombrelloni, non ti pare?»
«Ma nonno, ci sono i quadri che fanno ombra!» Mi disse lei convinta.
«Giusto, ci sono i quadri che fanno ombra, non ci avevo pensato».
«Ma nonno, ci sono i quadri che fanno ombra!» Boh, ogni tanto questa frase mi torna in mente ed ho sempre la sensazione che nasconda qualche metafora che sfugge. Fra qualche anno lo chiederò a lei, è capace che ha la risposta pronta!
Un altro giorno Alice raccontava a mia moglie come dovranno essere il suo abito da sposa, il bouquet, le scarpe, il suo sposo e tutto il cerimoniale: «Vedrai nonna che sarà bellissimo!» Le promise sicura di sé. Mia moglie che di solito è molto diretta le disse: «Ma prima che tu ti sposi io sarò già morta!»
«Non ti preoccupare nonna,» la rassicurò Alice «tanto poi gli angeli ti riportano sulla terra e staremo insieme per sempre». Ciò che hanno di bello i bambini è che sanno sognare e con la loro innata fantasia, tutte le volte che vogliono possono volare per raggiungere luoghi meravigliosi e realizzare milioni di desideri.
Poi rivolse lo sguardo verso di me, come se volesse dirmi: «È vero nonno?» Ed io le risposi con un bel sorriso rassicurante che sapeva di astensione e di silenzio. Le persone che mi hanno cresciuto avevano molta difficoltà a relazionarsi con me su questi temi e allo stesso modo mi ero comportato con Alice.
Sono rimasto orfano di mamma fin dai primi vagiti, ma non avevo mai considerato quanto fosse difficile parlare di questi argomenti ai bambini ed ora provo molta tenerezza per tutti coloro che in qualche modo hanno dovuto farlo con me.
Ho riflettuto a lungo su come e cosa avrei potuto dire ad Alice, ma al momento la cosa più sensata che sono riuscito a pensare è che, in questi casi, forse non esistono né modi, né parole appropriate!