Avevo quarantacinque e vivevo con una ragazzina Giulia in un appartamento fuori Assisi dove ci eravamo trasferite da poco. Vivevamo in modo magico.
Con gioia affrontavamo ogni giorno come se fosse il primo o l’ultimo della nostra vita. Le prime parole erano rivolte al nostro Signore per ringraziarlo di ogni bel giorno che ci donava. La colazione, le nostre tazze, le piantine, tutto aveva per noi molta importanza, come se fossero gioielli preziosi e in verità lo erano. Giulia mi era stata affidata all’età di quindici anni a seguito dell’impossibilità, da parte della famiglia di origine di poterla accudire adeguatamente. Era con me già da tre anni, prima vivevano con noi altre persone in un’altra realtà, dove, in un percorso di autonomia avevano preso la loro strada. Giulia ed io invece saremmo state “insieme per sempre”.
Ora Giulia faceva a sua volta volontariato presso una casa di accoglienza di mamme e bimbi, io organizzavo la casa e gli impegni esterni dell’associazione di cui facevamo parte. Quando scendevo verso i negozi, le persone che da poco ci avevano viste arrivare in questo nuovo appartamentino, erano per lo più accoglienti e bastava qualche sorriso per farci sentire come se ci conoscessimo da tempo. Era il nostro modo di vivere semplice che incuriosiva un po’ e forse anche la gioia che avevamo, che traspariva.
Era così quando stavo bene, perché, purtroppo soffrivo da tanti anni di fortissime emicranie. Quando sopraggiungevano, le cose cambiavano di colpo. Il male iniziava in sordina, ma poi diventava forte. Dovevo stare stesa a letto e muovermi il meno possibile. Anche la luce mi faceva male agli occhi, mentre tutto l’organismo incominciava a diventare teso, mi si chiudeva la bocca dello stomaco, non riuscivo più a mangiare, e gli acidi che si formavano aumentavano il malessere generale, finché non li vomitavo. Allora Giulia, preparava lei qualcosa di fresco, e si metteva accanto a me leggendo qualcosa, silenziosa, ma serena. Sapeva, nella sua giovane età che il male esiste su questa terra e che bisogna aver pazienza finché non passa. Mi commoveva tanto quel suo modo di fare. Le vere relazioni, si vedono davvero in certi momenti, nella sofferenza l’amore passa ancora di più. Giulia ed io avevamo un’intesa molto forte.
Quand’ero bambina, felice di saltellare di qua e di là, qualcuno approfittò di me e mise un segno che non si sarebbe mai più cancellato, anche perché non fu consolato da nessuno. Ed anche a lei in forma molto più aggressiva era successo lo stesso. Dolori di silenzio che chiudono il cuore e che sono il vero inizio del disagio mentale. Strappate così, entrambe, dalla cristallina infanzia che ogni bambina e bambino porta in sé, il Signore ci aveva fatto incontrare e mettere insieme. Questo era il nostro grande segreto, era la forza di sorridere ancora al mondo perché una grande speranza ci sosteneva, Maria, la nostra Madre celeste.
Quando iniziavo a star meglio, incominciavamo ad aprire le finestre e i primi raggi di luce entravano. Che gioia, anche questa volta era passata! Non mi ricordo più da quanti anni soffrivo di queste emicranie, avevo cercato di affrontarle via via con cure diverse, con l’ agopuntura, con i massaggi finché a un certo punto ebbi l’intuizione che il nuovo medico di famiglia che avevamo, una persona di cui sentivo di potermi fidare, avrei potuto chiedere qualche blando psicofarmaco. Era iniziato un periodo in cui anche il sonno non era più tranquillo e durante il giorno mi trovavo un po’ irascibile. Mi dissero di controllare la tiroide e così feci. Trovarono un piccolo nodulo. Alla visita del seno trovarono una ciste di grasso che mi aspirarono. Incominciai a fare esami su esami perché dovevo trovare l’origine di quel malessere generalizzato che sentivo. Nelle feci trovarono un po’ di sangue, negli intestini i diverticoli. Ero entrata in questo tunnel, era la strada che aveva percorso mia madre, sempre alla ricerca di una cura, o meglio dei mali che potevano esserci al fine di essere bisognosa di “cure”.
La mia indole però era tutt’altro di quella di mia madre e quando riuscivo a scrollarmi di dosso i malesseri, gioivo con Giulia per ogni cosa che nel quotidiano ci veniva incontro. Le persone che ci vedevano, anche i vicini che non ci conoscevano ancora, avevano nei nostri confronti un atteggiamento amorevole. Ci accompagnavano ogni giorno le nostre preghiere che ci facevano sentire così vicino al nostro Signore e alla Madonna.
Ci venne proposta di andare in Sicilia dove veniva offerta una casa alla nostra associazione. Accettammo con gioia l’idea di andare in un’ isola tanto bella. Mentre incominciavamo a pensare come trasferirci, cosa prendere con noi e cosa lasciare, chi ci avrebbe potuto aiutare, continuavamo a far visita ai miei genitori, a Parma, che stavano facendo il loro passaggio verso quell’ultima sponda della vita che nessuno sa come sarà, né come potrà essere gestita.
La mamma sembrava a tratti accettare con benevolenza la condizione di vita che inesorabilmente stava cambiando e cioè che la casa non poteva più essere uno specchio di pulizia come prima, che ci si sarebbe comunque adattati come veniva. A me questo aspetto della mamma di abbandono piaceva tantissimo anche il suo viso si era addolcito, ma purtroppo durò poco. Di nuovo si presentò un fatto così duro, di fronte al quale lei crollò. Si trattava di mio fratello…Quando lo incontravo quasi di sfuggita in queste visite ai genitori, incominciai a capire che per lui le cose non andavano bene, che cioè c’erano dei problemi tra lui e sua moglie, era tutto taciuto, ma i segnali erano diversi. Sua moglie non si vedeva quasi mai, non veniva a trovare i nostri genitori, ne telefonava, se non raramente. Questa cosa incominciò a preoccuparmi sempre di più, pensai e ripensai e alla fine decisi di chiedere aiuto al fratello di mia cognata, una persona altolocata che non avevo mai conosciuto personalmente. Gli scrissi una lettera dicendo della mia preoccupazione. Non avevo rapporti con la famiglia di mia cognata, avevo appena conosciuto i genitori quando erano in vita, questo perché non avevo una vera relazione con mio fratello e sua moglie. Eravamo sempre vissuti ignorando la vita gli uni degli altri, ci si incontrava solo in certe occasioni dai genitori o a qualche funerale, sapevamo di avere idee contrarie sulla vita e, se potevo capirlo per quanto riguardava la mia gioventù piuttosto trasgressiva, non riuscivo a comprendere come, paradossalmente, dopo la mia conversione di fede la distanza fra noi era ancora più grande. La mamma era sempre stata molto legata a mio fratello ed io da piccola ne avevo sofferto molto, tanto da imprimere in me un senso di gelosia che mi portai dietro in ogni amicizia, relazione che ebbe nella vita adulta.
Inviai questa lettera dicendo che vedevo segnali non chiari e chiesi se si poteva pensare insieme a qualcosa, di incontrarsi per cercare di capire. Non mi risposero.
Passò un po’ di tempo e una mattina mi chiamò mio padre per dirmi che la moglie di mio fratello aveva lasciato la casa. A me prese un colpo, mi feci passare la mamma che mi rispose con calma dicendomi di star tranquilla, di non alterarmi così, era come se lei lo sapesse, lo sapesse da tanto tempo. Non capivo, erano calmi, bisognava far finta di nulla, ma la cosa non mi tornava anche se sarebbe stata la più plausibile. Era chiaro che stavano rimuovendo la cosa perché era troppo grossa per poterla affrontarla. Mi venne un nodo alla gola, mi sentivo soffocare, ma capii che dovevo fare io qualcosa e così senza aspettare tanto chiamai il fratello di mia cognata e gli dissi il fatto. Lasciare il tetto coniugale è un fatto pubblico non è di privacy, lo potevo fare, ma il punto era un altro, al di là della privacy, mi chiedevo come poteva stare questa donna, da sola.. ? Passato il colpo d’azione, ora cosa poteva passare per la sua mente, quale disperazione, non era prudente, in quei momenti ogni cosa può succedere, la responsabilità era di avvisare i suoi familiari. Così feci, mi rispose il fratello con tono aggressivo, voleva sapere subito dov’era sua sorella, gli risposi che non lo sapevo, di chiederlo a mio fratello se non aveva il numero del suo cellulare di sua sorella con la quale avrebbe potuto avere direttamente un riscontro dei fatti. Furono passaggi durissimi. Mi sentivo morire. I muri che creiamo nelle relazioni sono muri di acciaio e quando per motivi estremi dobbiamo infrangerli, tutta la durezza e il freddo di quell’acciaio, lo possiamo sentire su di noi.
Freddo che penetra l’anima che ti fa sentire
Come un pulcino che vorrebbe dire : ‘no, no’, tutto questo è pazzia,
è distorsione della realtà, in fondo noi ci conosciamo
perché facciamo così ? Non vedi aquila del momento che sono
un pulcino, perché mi vuoi sbranare..
aspetta, guardati dentro, di più più in profondità, non Vedi ?
Non lo riconosci laggiù ….è il tuo pulcino, anche tu ce l’hai !!
Ma perché stavo tanto male viene da chiedersi se non avevamo rapporti ? Eh !! Tutto ritorna a quei primi anni in cui la nostra vita inizia. Il rimando che mi davano di me è che piangevo sempre, che non stavo mai ferma, disturbavo, mentre mio fratello era calmo, buono, bravo. Nel mio cuoricino si era da sempre impresso che al di là dell’ingiustizia che sentivo e della gelosia che provavo, lui era la parte bella, buona nella costellazione familiare, ora, cosa succedeva ? Quella parte veniva infranta si spezzava dentro di me, ecco il grande dolore.
“Cielo stellato, cielo d’amore, dove sei ? Perché fuggi lontano ?
Ti desidero più di ogni cosa, vieni a farmi vedere il colore dei fiori che devo
imparare, il suono delle parole che riempiono l’universo.! Ma davvero le potrò
parlare anch’io, o in un tempo più veloce che mai si distorceranno….No parole, amiche
mie dolcissime restate a cullarmi così come vi ho sentito la prima volta nel tono
dolcissimo di chi stava vivendo la realtà. Ti ricercherò per tutta la vita realtà, dopo
averti buttato, infangato e considerato nullità…Tu che sei tutto ma puoi manifestarti
solo quando il cuore torna ad essere bambino”
Per fortuna il Signore mi aveva messo accanto un angelo, era Giulia. Insieme continuavamo a fare le nostre passeggiate nei parchi, suonare la pianola, mi dedicavo a lei per tutto ciò che potevo, non le facevo mancare gli amici, gli incontri coi giovani della parrocchia, i festeggiamenti dei compleanni, le vacanze estive coi gruppi. Ma il mio cuore era spezzato, cercavo in me una forza che avevo ma che non riuscivo a liberare affinché sprigionata potesse esplodere gioiosamente. Avrei voluto aiutare tutti, ma gli ostacoli che si erigevano erano troppo grandi per me, piangevo spesso quando ero sola.
Da quel colpo la mamma non si riprese e precipitò in poco tempo in demenza senile. Il medico parlava di Alzheimer, ma poco importava cosa fosse, non ce l’aveva fatta e non avrebbe potuto farcela, era arrivata fino lì, aveva dato tutto quello che poteva. Era accompagnata da dolori vari sempre più presenti. Il papà, lucido di mente, si sentiva impotente nel farsi carico di lei che per tutti i lunghi anni della loro convivenza era stata colei che si faceva carico di ogni cosa in casa. Non riusciva a gestire la somministrazione dei farmaci a cui la mamma aveva posto la sua più alta fiducia, a cui dava un posto di così rilevante importanza, tanto che ora il papà l’ avvertiva come un compito immane da cui si sentiva schiacciare. A questo si aggiungeva poi il bisogno di un accudimento generale, dall’attenzione in cucina perché la mamma non lasciasse il gas acceso e via via la cura per il mangiare e per gli altri aspetti fisiologici. Ma non solo, anche lui aveva bisogno perché, stomizzato da 25 anni, era sempre stato aiutato dalla mamma nel fare le irrigazioni all’intestino per la pulizia giornaliera; ora doveva fare da solo, cioè scaldare l’acqua mettersi l’apparecchiatura idonea, introdurre l’acqua attraverso il tubicino nell’orifizio che immetteva nell’intestino.
Da parte mia dicevo di contattare un’agenzia per prendere una badante, ma per mio padre era molto difficile accettare che una persona estranea entrasse così ad ampio raggio nella sua vita, in quelle condizioni dove la cura deve essere gentile, attenta. Si dibatteva in questo conflitto, finchè non fu costretto ad accettare la ricerca di una badante. Mio fratello anche lui sferzato da questa svolta della sua vita, reagì fuggendo dalla realtà e per alcuni anni non sapevamo neanche dove fosse, incominciò a viaggiare a fare sport estremi per stordirsi.
Mi ritrovai a dover affrontare per come potevo la situazione. Trovammo una badante che non andava e poi un’altra, nel frattempo Giulia ed io ci trasferimmo in Sicilia. La vita doveva andare avanti.
Sentii di dovermi sostenere un pò, di dovermi far aiutare e così parlai col medico e in punta di piedi gli richiesi un tranquillante. Lui mi propose il triptofano che è precursore della serotonina, benefico per il sonno e come calmante. Iniziai a prenderlo e sicuramente avrebbe avuto un buon effetto se fosse stato accompagnato da altre cure del mio corpo e della mia mente, tranquillità, dolci amicizie, momenti di relax, cura del corpo, del cibo, ma tutte queste cose per il momento erano lontane, potevo solo viverle in miniature, con Giulia in qualche momento del nostro quotidiano. Sì perchè in ogni quotidiano ci sono spazi dorati, è necessario togliersi i calzari perchè si toccano terre sacre, come dicono i salmi, ma proprio lì avviene qualcosa, in quell’abbandono a Dio, al Dio di cui nulla sai se non che è il Padre che tutto avvolge, tutto comprende e ti tiene nella sua mano.
Ci eravamo affezionate anche al nostro appartamentino che ci accingevamo a lasciare. Le tendine bianche sul bordo blu delle finestre erano deliziose, così i mobili della piccola cucina e salottino, l’unica cosa è che non li sentivamo nostri, era un appartamento ammobiliato e non potevamo appendere quadri al muro o permetterci cambiamenti dei mobili od altro. Insomma questo era, però avevamo due stanzette deliziose e ogni cosa era curata e bella. Di fronte a noi c’era un chiassoso bar dove andavano e venivano persone un po’ mal conciate. La sera noi stavamo sulla finestra ad osservare ed alla fine ci erano diventate familiari quelle persone che quotidianamente frequentavano il bar. C’era una mamma con due bambini di cui uno neonato che stava li’ per ore. Chissà com’era la sua vita. A volte sentivamo qualche urla, discutevano un po’ e poi si calmavano e li sentivi scherzare familiarmente. Parlavano, parlano, si raccontavano, centomila volte più familiarmente di quanto avessi fatto io con mio fratello. Ci preparavamo al trasloco, in un garage avevamo messo i nostri mobili nostri della casa precedente a cui eravamo affezionate, pacchi e pacchettini, chissà dov’erano finite tutte le nostre cose, chissà se le avremmo ritrovate intatte.
Dovevamo trovare un pulmino, pulire, riordinare, rimettere a posto. Mi scoppiò di nuovo l’emicrania, una signora della Parrocchia mi venne ad aiutare dicendo che pensava lei a trovare un furgone fino a Reggio Calabria, e dalla Sicilia ci diedero un indirizzo dove collocare la roba fino a quando non la avessimo potuto portarla a Catania. Giulia era felice di tutto, pur di essere insieme a me a cui si era affezionata tantissimo, tutto era gioia, gli incontri con le persone che ci aiutavano, il viaggio. In questa sua gioia io trovavo forza. La guardavo negli occhi e vedevo il cielo, il suo sorriso era come quello dei santi. Ringraziavo il Signore perché nella sofferenza mi donava questi momenti di contemplazione.
I poveri hanno uno sguardo speciale, uno sguardo che, se non sono
cattivi, è puro come l’acqua cristallina della sorgente, non sanno quello
che hanno perché non hanno nulla, per questo ogni cosa che contattano
è un dono inestimabile. Purezza che non si è traviata dalla corruzione
dell’avere. Povertà santa e benedetta.. Dio, tu ci apparteni.
I miei mali erano diventati miei compagni, a volte appoggiavo il capo di qui e di là,
aspettando che passassero come se fosse una normale consuetudine.
Prima che succedessero tutti questi pesanti avvenimenti, mi ero iscritta ad una scuola di counselor, che aveva un forte riconoscimento anche nell’ambito ecclesiale, per la qualifica di ‘Formazione in scienze umane per la vita consacrata’. Avevo fatto questa scelta anche se in età adulta per approfondire la conoscenza umana nel suo aspetto emotivo, relazionale e spirituale. Il desiderio di conoscere il senso della vita anche nell’aspetto filosofico, poetico, mi aveva sempre attratto, avevo sempre cercato la verità delle cose e la conoscenza di come funzioniamo nel nostro più profondo senza però coinvolgermi in forme troppo psicologiche, speculative, preferivo l’approccio sapienziale quello presente in tutte le grandi culture. Coniugare questo con la vita spirituale mi dava un respiro così profondo che seppur per brevi tempi vedevo le cose sotto un’altra prospettiva e i problemi prendevano dimensioni rimpicciolite mentre si ampliava il senso della conoscenza profonda là dove non sappiamo quali sono i confini, dove solo avvertiamo una libertà infinita, uno spazio di danza dove l’amore è il principio di ogni pensiero ed azione. Lontano da quei percorsi di analisi speculativa che mentre pretende di farti uscire dal tuo labirinto, nella maggioranza delle volte ti ci rimette, ancora più impelagato perché quel pensare sempre nel nesso della causa effetto è un circolo vizioso che non ti permette più uscire e di vedere i petali dei fiori, le conchiglie del mare.
Giulia ed io eravamo state in Birmania qualche anno addietro in visita a una missione e sull’aereo di ritorno avevo conosciuto una suora insegnante di una scuola di counselor per la formazione umana della vita consacrata di cui avevo già sentito parlare molto bene. Fui subito interessata e le chiesi come poterne avere informazioni dettagliate. E’ incredibile come siamo tutti connessi e come incontriamo ‘per caso’ ciò di cui abbiamo bisogno. Un proverbio indiano dice: ‘quando lo studente è pronto arriva il maestro”. Avevo un tal desiderio di conoscermi in profondità, non più spontaneamente, ma secondo gli studi sapienziali e psicologici che portano al cammino di maturità, secondo quelle tappe conoscitive che sono state seriamente studiate da chi si è dedidato prioritariamente a questo nella scia aperta all’aspetto ultimo spirituale. Dopo poco tempo ricevetti la documentazione riguardante la scuola, si trattava di tre anni con frequenza a due periodi di quindi giorni nell’arco dell’anno. Pensai di potercela fare, Giulia sarebbe potuta stare quei giorni presso amici della nostra associazione. Quando però mi dissero i libri che dovevo studiare solo per l’esame di ammissione mi prese un colpo e per un attimo pensai: “No, è troppo per me, non posso farcela.” Ma quando aprii quei libri mi sentii catturata, affascinata, era proprio ciò che stavo cercando, proprio quell’integrità lì di umano e spirituale, ciò che mi mancava, compilai i documenti e li inviai per l’iscrizione. Mi impegnai, mi preparai, mi presentai e fui ammessa al primo anno. Stavo entrando in un mondo nuovo. Non sapevo nulla di quelle materie, sì, ne avevo sempre sentito parlare delle patologie, ma in senso lato, ora che le studiavo, in modo così approfondito e attraverso moduli di rispecchiamento, la notte sognavo di essere proprio io affetta dalla schizofrenia, dai deliri, da ciò che stavo studiando, per fortuna che eravamo accompagnati da un tutor personale a cui ci si poteva rivolgere in ogni momento. A lui parlavo dei miei pensieri aggrovigliati, del sospetto di essere un pò malata. Lui mi ascoltava senza parlare e solo alla fine mi diceva:”beh, se anche così fosse, qui lei è in un ambiente protetto dove può ascoltarsi, vivere e rivivere. Siamo qui per questo, no?”. Capivo e non capivo, ma andai avanti.
Eravamo accompagnati da una vita sacramentale ben supportata e lì trovavo la forza per dirmi che ero comunque sulla buona via. Molte volte mi chiesi se non mi fossi sbagliata, perché mi sembrava impossibile di poter sostenere tutto il carico che la scuola stessa richiedeva. La direttrice mi diceva di continuare. Quando si chiudeva la sessione dicevo “questa volta faccio basta” poi succedeva qualcosa dentro di me che mi portava a tornare. A un esame di spiritualità, una suora di clausura che faceva da tutor nella scuola, mentre mi interrogava portò il discorso sulla depressione e mi chiese quali erano le differenze tra quella nevrotica e quella patologica. I suoi occhi. quando alzava lo sguardo, avevano una luce che mi facevano sentire la profondità del mio essere. Ma mi dimenticai presto di quel suo condurmi a parlare della depressione, neanche mi sfiorava il pensiero che potesse riguardarmi personalmente. Mi era però rimasto in testa che la serotonina che poteva venire a mancare nel nostro corpo, si poteva riequilibrare e su questa reminescenza ne parlai al mio medico.
Così mentre Giulia ed io stavamo per arrivare in Sicilia, confortata da queste cure iniziali, trovavo un po’ di sollievo. La natura era bella, oh quanto era bella! Il mare, il sole, la luna…In quell’atmosfera la mente a volte spaziava con un ritmo calmo e pensavo alla separazione di mio fratello, era arrivato, dopo 35 anni a troncare una parte della sua vita, lui che rappresentava per me il fratello modello. Era quello buono, bravo che aveva avuto sempre la preferenziale approvazione dei genitori, dei parenti, a dispetto di me che invece ero impertinente, disubbidiente. Non capivo come era stato possibile questo capovolgimento e dovevo allontanare il pensiero il pensiero per non affliggermi. Neppure nei rimandi agli studi della scuola riuscivo a trovare una lineare risposta che mi venne dopo tanti anni a seguito di un ulteriore cammino che feci. Si tratta della maschera e dell’ompra del dottor Jakie e mister Heide di Stevenson. Per anni ci si maschera dietro comportamenti conformisti e non veri reprimendo ogni desiderio sentito, ogni forma impulsiva finchè un bel giorno si scoppia ed esce tutta la nostra rabbia, è mister Heide che vuole ora distruggere il dottor Jakie e lo farà, ma la storia insegna che neppure mister Heide potrà sopravvivere…
L’approdo in Sicilia non fu facile e ben presto mi resi conto che anche lì ero piuttosto sola e dovevo contare soprattutto sulle mie sole forze. Era una sensazione terribile, qualcosa che veniva da molto lontano e sembrava un laccio inesorabile che non mi avrebbe mai lasciato: “Tu sei piccola e il mondo è grande, come puoi farcela?” Allora cercavo sostegno nella forza della volontà come avevo visto fare da mia madre. Ma che cos’è questa inneggiata forza di volontà ? Se intendiamo una forma di reazione alla stasi, certo, è cosa buona, ma se ne facciamo una virtù eroica entriamo nell’inganno che pian piano esaurirà la nostra forza fisica e psichica e ci impedirà di attaccarci all’ancora che invece salva: l’abbandono in Dio. Un’altra sottile ma fortissima illusione in cui spesso cadevo. Solo Giulia mi teneva legata alla realtà, e allora entrava in gioco l’entusiasmo che cambia le carte in tavola. Poi di nuovo mi ributtavo in lavori pesanti e mi tornava l’emicrania. Dovevo stare a letto per due o tre giorni, riuscivo ad alzarmi solo per preparare le cose più essenziali e poi ricadevo in un intontimento aggravato da mali intorno alla testa, agli occhi e al viso. In quelle occasioni mi veniva a trovare una amica che si procurava di portarmi un po’ di cibo ed veniva anche a prendere Giulia affinchè trascorresse alcuni giorni da lei. Volevo che lei fosse serena il più possibile, preferivo rimanere sola per quel tempo che non era quantificabile, non potevo neanche pensarlo in questi termini perché non si può stare nell’attesa che passi il male lo sa chi lo conosce, non puoi che accoglierlo… Neanche star lì a pensare alle cause giova anche se la mente ti porta a quello, il pensare mi procurava il vomito, cercavo allora di rimanere abbandonata il più possibile e in un misto di dolore, intontimento, sonno restavo così senza capir più dove ero e quanto tempo passava. Restava la speranza che quel malessere passasse perché così era stato ogni volta e così di fatto succedeva, dopo alcuni giorni il male si scioglieva e se ne andava e allora mi sentivo così felice di ritrovare forza che mi ributtavo a per fare le tante cose che c’erano da fare. La prima volta che andai dal nuovo medico non trovai il modo per iniziare un discorso sul mio malessere, questi iniziò con una gran chiacchierata filosofica di ca. un’ora tra Sicilia e continente, tra l’ essere medico a Roma, ed ora in un paesino della Sicilia. Concluse chiedendomi di cosa avessi bisogno, gli feci vedere il farmaco che stavo prendendo e lui mi fece la ricetta. Me ne andai chiedendomi se era una persona sana o giù di testa, era forse quello il modo di accogliere una paziente che non conosci? Andai una seconda volta, non mi ricevette perché era occupato. Ritornai un po’ arrabbiata, lui mi fece entrare e mi disse che quando gli accennai di questi stati di malessere mi disse che ero depressa e mi ordinò Serotonin il farmaco più comune per la depressione. Che il medico mi avesse detto che ero depressa, proprio non mi andava giù, proprio lui, mi dicevo, che ha un comportamento così bizzarro ed egocentrico. Incominciai a prendere il farmaco ogni giorno, ma controvoglia.
Cercavo di andare qualche volta al mare con Giulia, ma il vento mi disturbava molto e facilmente mi iniziava la nevralgia. In questo sali scendi di condizioni psico-fisiche riuscivo ancora a portare avanti la mia vita con Giulia, con l’associazione, con le persone della parrocchia, del paese e mi chiedevo quante donne stavano andando avanti così, con tanta fatica, incertezza e solitudine. La mia forza era la fiducia che riponevo nel Signore, una forte relazione affettiva mi legava a Lui. L’avevo rincontrato, dagli anni dell’infanzia, all’età adulta di 26 anni. Era avvenuto in seguito ad un incidente dove mi ero salvata solo grazie ad un miracolo. E nella mia coscienza, che si era risvegliata in quell’impatto, riconobbi la presenza di Dio salvatore. Erano passati da allora quasi quindici anni.
Ritornando a noi, devo dire che il mio umore era diventato un po’ più acceso, ‘sarà l’aria dell’isola’, mi dicevo, ma di fatto mi era facile accendermi di rabbia nelle situazioni di difficoltà, verso le persone e questo non riuscivo ad accettarlo. Dopo tanti studi e esperienze simulate sulla gestione delle emozioni, mi ritrovavo ancora incapace di tenere il timone stabile. Avrei potuto accettarmi così, sarei rientrata in una media passabile di personalità, che doveva però abbandonare il desiderio di vivere la contemplazione, di essere presente nel qui ed ora, nella gioia dell’entusiasmo che la vita porta con sé per le cose che si incontrano. Edith Stein la chiamava fenomenologia. Ero attirata da questi aspetti di concepire e vivere la vita, non così lontani dalla spiritualità di povertà, obbedienza e castità che avevo scelto come ambito della mia vita in Cristo. Cercavo di trovare il mio rifugio in queste modalità, mettendo in conto che poi sarei ricaduta, mi sarei di nuovo accesa di rabbia con qualcuno e per qualcosa perdendo il mio stato spirituale di integrità. Sentivo vicino anche l’amore della Madonna che mi sosteneva, era a lei che mi rivolgevo per prima.
Telefonavo spesso a casa per sentire come stava andando e la voce di mio padre era sempre più preoccupata e ansiosa. Gli chiedevo cosa volesse fare e lui mi diceva che intanto andava avanti così. Ricontattai la cooperativa delle badanti e mi dissero che c’era la disponibilità di una ragazza filippina, molto gentile ed educata che avrebbe potuto fare al caso nostro.
A Natale Giulia ed io li andammo a trovare. La mamma era entrata in una condizione di lamento continuo per una o per un’altra cosa. Voleva essere ricoverata dicendo che stava male, molto male, questo succedeva soprattutto nel feste, così che ci ritrovammo anche quella volta, tutto il giorno di Natale nella sala di attesa dell’ospedale, da cui uscì senza alcuna diagnosi particolare. Quella volta venne anche mio fratello ci parlava di stramberie che faceva, dei suoi viaggi, ma almeno fui contenta che ci fosse. Povera mamma aveva così bisogno della nostra vicinanza che solo attraverso la modalità dello stare male si sentiva di potercelo chiedere. Piccola cara, quanto hai sofferto anche tu…
Convinsi il papà ad andare all’agenzia dove parlò a lungo con la responsabile e si accordò per la ragazza che avrebbe iniziato ad andare da loro. Da lì a poco la mamma ebbe forti dolori allo stomaco, trovarono i valori della cistifellea fuori dalla norma e le fecero un ricovero. Si pensava al peggio, che ci fosse qualcosa di serio al fegato, invece fu operata di cistifellea e dopo, apparentemente si ripresa. Fisicamente stava benino, ma l’anestesia aveva aumentato l’ alzahimer. Cercava di avvicinarsi ancora ai fornelli, ma la cosa si faceva pericolosa.
Io andavo e venivo ogni due mesi con Giulia. A volte arrivavo così stanca dal viaggio, che subito mi scoppiava il mal di testa e la nevralgia.
Ora in casa c’era Grace, era bravissima, un angelo. La mamma ormai non era quasi più presente capii che erano i suoi ultimi momenti di lucidità. Nel viaggio di un’altra visita Giulia ed io pregammo intensamente perché la mamma si potesse confessare. Arrivate in città andai in una chiesa che trovai aperta, incontrai un giovane sacerdote e gli chiesi se poteva venire a confessare mia madre, perché ormai stava perdendo la facoltà di intendere. Non mi chiese neanche perché non mi ero rivolta alla mia parrocchia, ma disse di sì e venne a confessarla. Quel giorno la mamma era molto bella, rilassata, serena, forse sapeva di incontrare quel giorno Gesù nelle vesti del sacerdote.
Quando finirono sentii che chiacchieravano. Lo ringraziai tanto. Ero felice di aver ottenuto quella grazia perché da un po’ di tempo la mamma rifiutava di andare in chiesa, lei, che era sempre andata.
Credo che mia madre abbia troncato in un certo senso con la fede per via dei suoi sensi di colpa. Aveva smesso pian piano di andare a messa perché la domenica lei e il papà andavano nella casetta in collina che avevano rimesso a posto. Là non andavano alla chiesa perché le relazioni si erano un po’ tutte sfilacciate, a volte gli orari non coincidevano e così pian piano hanno lasciato la messa della domenica. Il demonio trova tutte le vie per infilarsi dentro la vita delle persone e portare alla deriva. Nei loro riguardi era riuscito ad entrare attraverso tante piccole scuse…e la mamma ne aveva poi risentito molto, si era chiusa sempre di più su di se ed anche di fronte ai dolorosi fatti successi riguardo la separazione di mio fratello, la mancanza di fede aveva fatto velocemente precipitare lo stato psichico della mamma. Pur tuttavia le cose vanno avanti e ci si adatta anche alle nuove condizioni in cui la vita ci porta e, così le cose trovarono per un certo tempo un loro equilibrio la presenza in casa di Grace e questo permise che anche Giulia ed io trovassimo una nostra parziale stabilità. Fu in quel tempo che arrivò una richiesta urgente per l’accoglienza di un’adolescente, alla nostra associazione. Sentii che potevo dare la disponibilità per questa accoglienza e confidai anche nella quasi certezza che mi avrebbero inviato una persona per aiutarmi. L’arrivo di Letizia portò novità e gioia e ora anche Giulia aveva una sorellina che per la verità necessitava di essere vista ad occhi nel primo periodo. Era molto diffidente, e chi non lo sarebbe stato? Catapultata in una casa con persone che non conosci, a cui devi obbedire… poi pian piano si sciolse e passammo dei giorni belli e allegri, sempre però nell’attesa che arrivasse un aiuto.
Aspettai per un certo tempo finché mi dissero che non era possibile che qualcuno venisse da me perchè c’erano urgenze più impellenti in altre case dell’associazione e se dunque fosse arrivata una volontaria non sarebbe stata destinata da me.
Fu un colpo duro, realizzai che sarei stata sola e la preoccupazione di dover far fronte a tutte le esigenze che c’ erano mi portò a soffrire di nuovo di emicranie. Mi sentivo bloccata in una situazione che non avrebbe risvolto, l’organizzazione mi superava e quindi non potevo che sentirmi sotto il livello di serena ed ampia agibilità. Era inizio di depressione? Non lo so, certo è che in quei dolori in cui restavo debilitata per ore mi ritrovavo a fare i conti coi miei pensieri più o meno martellanti che venivano appunto dalle preoccupazioni. Il mal di testa, quella parte infiammata ingigantiva immagini di bruttura, si mescolavano incubi, la pazzia sembra volermi portare con se, ne uscivo sfinita, ma di nuovo ero contenta di ritrovare la forza per dedicarmi alle ragazze, alla casa, alla preghiera e allo studio. Dovevo ancora dare qualche esame poi avrei finito la scuola di counselor, e dovevo anche trovare un nuovo psicologo in quanto la scuola prevedeva un accompagnamento psicologico obbligatorio per l’arco dei tre anni. Dalla scuola mi comunicarono il nome della psicologa di Catania dove avrei potuto continuare il mio percorso di accompagnamento. Mi presentai all’indirizzo, in una villetta vicino al lungomare. La psicologa era una giovane ragazza molto bella ed elegante, mi colpì subito la sua sicurezza, la sua eleganza che io sentivo di non avere. “Potessi raggiungere quel livello di padronanza mi dicevo fra me e me.” La personalità di questa dottoressa mi stimolava molto, la sua determinazione nell’affrontare i problemi per me così grandi, che nelle sue mani diventavano piccoli affinché anch’io potessi percepirli in un modo più accessibile, era un piacevole momento di relax dallo stress. Andavo volentieri, l’ascoltavo, alcune cose contingenti miglioravano, ma io mi vedevo sempre piccola. Non avevo padronanza, avrei dovuto affrontare con più determinazione i miei collaboratori dell’associazione, dire le cose per quello che erano senza giraci intorno, non farmi condizionare dall’aspetto spirituale di dover accettare in uno stato di paziente subordinazione le cose così com’erano,vivevo invece un condizionamento spirituale che mi faceva stare buona e zitta…ma questo modo non funzionava, anzi, mi deteriorava sempre più. Perché, bisogna che ce lo diciamo con franchezza noi siamo sempre dentro un gioco relazionale dove prima di aver padronanza nel dire le cose agli altri, di essere determinati, è necessario che lo siamo con noi stessi e se questo manca, anche a livello inconscio, sì che tu non lo vedi ma gli altri sì, quella parte di nostra incoerenza, insicurezza gioca a favore degli altri. Mentre sei dentro alla situazione è però impossibile vedere quanto ora sto esplicitando, è come essere dentro a un tino pieno di mosto che ti arriva alla bocca e tu non puoi far altro che cercare di liberarti da quel po’ che entrandoti in bocca non ti permette di respirare, null’altro. Neppure vedi che sei dentro a un tino da cui devi uscire….
Mi piaceva tanto la passeggiata che facevo lungo il mare per arrivare all’abitazione della psicologa. Quell’aria sul viso mi faceva sentire leggera, fosse stato anche per pochi momenti. Le mie ragazze mi volevano molto bene mi dicevano che ero una mamma speciale. Mi ero messa accanto a ciascuna di loro per affrontare insieme la vita che ogni giorno si dispiegava davanti a noi. Letizia, la ragazzina più piccola aveva paura dell’acqua, era perfino scritto nei suoi documenti sanitari. Chissà cosa le era capitato, o cosa rappresentava per lei.. eppure ero sicura che pian piano avremmo superato quello scoglio. Scoprimmo insieme com’era buon il profumo di una saponetta e la schiuma sulla pelle e pian piano giocando e scherzando siamo riuscite a fare le prime doccie senza gridare e senza scappare. Che grande conquista fu quella ! Allora non mi sarei mai immaginata che cinque anni dopo anche per me l’acqua sarebbe diventata una cosa ostile, che non avrei più saputo come gestire, perché mi sarebbe costato tanta energia spogliarmi, sentire freddo, dovermi lavare, sarebbe stato faticoso come scalare una montagna.
Iniziavamo il giorno col ringraziamento ed entrambe le ragazze erano ben contente di dire le loro preghiere, a volte le cantavamo anche e perfino ballavamo. Ci eravamo inserite nella parrocchia, l’unico luogo dove oltre alla santa Messa, potevamo incontrare persone di cui ci potevamo fidare e istaurare qualche amicizia, anche e soprattutto col parroco. In fondo eravamo tutte e tre orfane di padre, non avevamo conosciuto quella bellissima relazione che può esserci fra un padre e una figlia. Le ragazze non avevano elaborato questa cosa eppure coglievo che d’istinto, quando intravvedevano una figura maschile seria, accogliente, stabile, c’era in loro come in me la tendenza ad affidarsi..Il parroco del quartiere dove stavamo si interessava a noi e ci invitava alle feste parrocchiali che erano colorate dai fiori, dai canti di tanti bambini.
A casa, la mamma progrediva nella sua malattia senile, il papà si sentiva sollevato dal compito delle medicine, era Grace la ragazza della cooperativa che se ne faceva carico, che accudiva la mamma e che teneva pulita la casa. Di mio fratello non sapevo granché se non che si era buttato a frequentare sport estremi, non certo adatti per la sua età. Passarono ancora alcuni mesi, finché il papà dovette decidersi a prendere una persona fissa, notte e giorno per la mamma. Rientrai con le ragazze e riuscimmo in pochi giorni a trovare una badante e a metterla in regola per l’assunzione. Non so cosa la mamma potesse cogliere di quello che le stava succedendo, ma di fatto peggiorò fino a rifiutare il cibo. Non era più lei, il suo viso aveva i tratti della persona malata di mente. I suoi occhi erano così lontani, non parlava quasi più e reagiva ad un basso livello di stimolazione al mangiare e al bere. Questa nuova badante la trattava come una bambina, cosa che andava contro il forte concetto di sé che mia madre aveva sempre avuto, chissà, forse se ne rendeva conto e per questo si sentiva a disagio ed era ancora più passiva verso tutto… Anche il papà non si trovava bene con questa donna, che gli stravolgeva le sue abitudini. La mamma peggiorava e un giorno che era da loro mandò un grido lancinante al punto che io pensai di poterle solo tenere le mani fra le mie e pregare perché forse era il ‘passaggio’, si disperava…poi d’un tratto cessò, capii ce era stato un attacco di panico. La strinsi forte a me, lei aveva sempre dato la colpa dei suoi mali a cause organiche mentre invece invece era la sfera psichica – emotiva la sua vera causa, lei pure aveva convissuto con la depressione, allora si diceva esaurimento, eppure lei non l’aveva mai deliberatamente riconosciuto, né tantomeno detto. Sarebbe stato un fallimento per lei riconoscerlo perché era cresciuta col valore della volontà all’insegna della quale tutto si deve superare. Difronte a te stessa e agli altri devi mostrarti forte, brava e buona.
Oggi sappiamo per certo che la depressione ha cause di familiarità, anche un fratello della mamma, cinquant’anni addietro era stato ricoverato in una clinica per malati di mente dove era stato sottoposto a elettrochoc. E, anche mio fratello pochi anni dopo che si era sposato, a seguito del dispiacere per aver acquistato l’appartamento in un luogo dove avrebbero fatto passare un treno ad alta velocità, fece esperienza di una forte forma di depressione, diceva che si voleva buttare dal balcone. Sicuramente oltre a quella causa scatenante c’era ben altro.. ma non ce ne rendevamo conto. Andò in cura e la depressione passò per trasformarsi poi dopo trent’anni in rabbia scatenate.
E anche mio padre, in alcune occasioni aveva sofferto di forti crisi di pensiero compulsivo e paranoie scatenati da fatti di per sé irrisori, soffriva di paure un po’ deliranti che lo facevano stare male, ma da cui non riusciva a liberarsi. Mai si curò per questo, doveva andare avanti, portare avanti gli impegni, chi l’avrebbe aiutato ? Poi a quei tempi o c’era la clinica psichiatrica che voleva dire spezzarti la vita o non si parlava proprio di nulla. Dunque è bene ricordarsi che le familiarità esistono…?! Ma come potrebbero non esistere mi dico oggi che il tabù si è svelato, se sono proprio gli stessi comportamenti che iniziano la vita di un’altra persona..allo stesso modo ?! Non pensate che voglia dare la colpa ai miei genitori, che oggi amo come mai prima, è semplicemente una conseguenza logica…..noi possiamo trasmettere quello che abbiamo interiorizzato dentro di noi, spesso fra queste cose c’è l’ansia, l’angoscia. I traumi che la mamma aveva subito da piccola: non accudita da sua madre, non era stata amata, in un tempo di disperazione quale quello della guerra, in un paesino di collina dove le mentalità non conoscevano che i giudizi e i pregiudizi. Come non potevano poi essere questi i printing che avrebbe segnato tutta la sua vita? Quando rimase incinta di me era molto ansiosa perché aveva mio fratello di un anno ed era già assorbita dal carico che doveva portare in uno stato di alta precarietà ed io respirai esattamente quell’aria, un’aria carica di paura, ansia e tristezza. Il papà, mi raccontava che la sua mamma, quando era neonato lo fasciava tutto così non si poteva muovere, ne piangere e lei poteva lavorare nei campi; e quando passavano i padroni per controllare il lavoro, nascondeva il bambino nel fienile. Poi c’era la guerra…, dunque che dire ? Avete fatto tutto quello che potevate fare cari genitori, certamente da parte mia, sono rimasta a mia volta senza le cure adeguate, a livello psicologico-relazionale e mi sono presto ribellata alla mancanza d’amore andando a cercarlo là dove non potevo trovare altro che forme di non amore. E così le storie si ripetono e quando noi pensiamo di esserci liberati completamente da certi modelli dei genitori, poiché in verità li abbiamo interiorizzati, prima o poi escono fuori e noi ci ritroviamo a fare esattamente quelle cose che detestavamo dei nostri genitori magari solo in modo camuffato che noi neppure riconosciamo.
E poi cosa dire della cultura che ci dovrebbe sostenere, essere la struttura di quei veri valori esistenziali che ti aprono alla vera vita? Subito dopo la guerra è iniziata la corsa al consumismo, poco poco che le persone si sono rimesse in piedi le grandi governances, che esistevano già allora, era già pronte ad inculcare nelle menti la grande via della pubblicità che da allora in poi non ci avrebbe mai lasciato. La via dell’amore veniva ben camuffata sotto l’aspetto dell’attrazione fisica sempre ben correlata degli accessori della moda. O così oppure ai margini a farsi le canne o a bere nelle osterie per arrivare poi alla tragica droga pesante. C’era ancora una certa buona musica, arte, spettacolo, ma per poco ancora veniva già pilotata verso il declino, l’impoverimento culturale fino al basso livello ora raggiunto.
Ormai dovevo andare a vedere come era la situazione dei miei ogni due mesi e il viaggio era sempre più pesante. A volte le ragazze venivano con me a volte si fermavano presso una casa di amici della parrocchia che si davano disponibili ad ospitarle. La condizione della mamma era peggiorata, non parlava più e a fatica a mangiava qualsiasi cosa, il tutto in un atteggiamento ormai di abbandono passivo, da non confondere con quello attivo che è tutt’altra cosa. Il papà era triste pur tuttavia trovava la forza per portar avanti tutte le cose della casa. Quella mattina presi la bicicletta ed andai senza tanto pensarci in una chiesa, cercai un sacerdote, gli dissi di mia madre e gli chiesi se poteva dargli l’unzione dei malati. Comprese al volo inforcò la bicicletta e mi seguì. Entrammo nella camera dove era mia madre e il sacerdote si mise la stola, poi le si avvicinò e lei gli rispose: “avevo un fratello frate”. Credo di aver assistito a un momento mistico. Era come se le cose prendessero forma da sole, ci disponemmo in ordine intorno al letto, la mamma si rilassò e il suo viso cambiò espressione. C’era pace, era sceso un dolce silenzio in quella stanza, il sacerdote iniziò la preghiera con la lettura del vangelo, seguì una pausa e poi le diede l’unzione. Eravamo come rapiti….la mamma era così serena..
Dopo due giorni la badante mi chiamò preoccupata perché la mamma aveva una gamba molto gonfia, poteva essere una trombosi. Chiamammo l’ambulanza per l’ospedale. Quante volte era stata chiamata!! Ma quella volta fu l’ultima volta che la mamma lasciò la casa. Ora c’era bisogno di sostenere quella situazione, per fortuna era, estate le scuole erano chiuse, e così potemmo trattenerci per tempo che necessitava.
Le fecero una cura per diluire il sangue, la trombosi si risolse ma come effetto collaterale aveva tante piccole ferite nelle braccia, nelle gambe che non si rimarginavano, sanguinava un po’ dappertutto. Il medico disse che la dimettevano perché era stato risolto il problema per cui era venuta. La guardavo e non riuscivo a vedere la possibilità di spostarla in quelle condizione, il papà non se la sentiva di portarla a casa dove non poteva esserci un’assistenza sanitaria adeguata. La badante stava prendendo le distanze rispetto la responsabilità di farsi carico dell’accudimento della mamma, neppure le notti all’ospedale. Pregai dentro di me, non era facile capire cosa si potesse fare, poi ne uscii con una reazione di grinta, dissi ai medici che non potevano assolutamente dimettere la mamma in quelle condizioni e chiesi alcuni giorni per trovarle un posto. Mi diedero una settimana di tempo. Iniziammo la ricerca di una casa per anziani e solo dopo qualche giorno ci risposero positivamente e trasferimmo là la mamma. Anche mio fratello fu presente e ci aiutò in quell’occasione.
Il papà era contento, si sentiva sollevato, gioivamo delle piccole cose positive che avvenivano, ci sembrava una grazia l’aver trovato un posto visto che si doveva stare in attesa.
Grande il mistero della vita del “qui ed ora”….se dentro ad una situazione
anche la più difficile tu ci entri, ci stai, lì avviene qualcosa… Nel presente,
in ogni presente ci sono delle piccole luci. Non esiste tutto tenebra, solo la
nostra mente può disegnarla, ma non è così nella realtà….quando
riconosco la realtà e ne sono a contatto…allora attraversandola
incontro delle piccole oasi di pace, luminosissime…
Qualcuno potrebbe dirmi, se tu ci stai raccontando la storia della tua depressione cosa c’entra tutto questo ? Sì, è vero che la depressione ha una familiarità , ma non solo, nel mio caso non è arrivata a cielo aperto, ma attraverso tutti questi avvenimenti della vita. Per questo ritengo che raccontare queste storie familiari sia raccontare parte della depressione stessa. Pensandoci ora è una storia che viene da molto lontano, quando ancora piccina, senza poterlo sapere stavo dando inizio a un gomitolo rosso il cui filo nasceva proprio in quei primissimi anni. E quel filo non mi ha mai lasciato io l’avevo buttato via e mi ero messa una bella maschera per recitare quella parte che io pensavo mi avrebbe potuto dare la possibilità di essere amata. Poi la maschera non ha retto e l’ombra che avevo dovuto mettere nel sacco è uscita più arrabbiata che mai, parolacce, aggressioni, tutto e di più. Ma non era neanche quella la ragione da seguire, quella mi distruggeva. E dunque in questa bilancia di alti e bassi ancora l’equilibrio non riusciva ad emergere. Ancora sofferenza, nonostante avessi lasciato maschera ed ombra…e dunque? Ci vuole tempo per ricucire bene, per rammendare finemente affinchè il tessuto diventi ben forte, forse è necessario che lo strappo si faccia grande così si può veder bene come ripararlo…. queste sono solo supposizioni.
C’è una risposta che però oggi mi sento di dare, ed è questa:
“Quando credi di aver messo a posto le cose, di aver capito,
di esserci, ancora non ci sei, quando pensi che quella è sicuramente la strada,
ancora non è quella.
Quando non sai più neppure chi sei, quando le maschere delle maschere
si sono infrante da sole,
forse ti incominci ad avvicinare… quando ogni resistenza è lasciata
e si è nell’abbandono completo, può succedere qualcosa.
Non un aggiustamento, non un piccolo cambiamento,
ma un rovesciamento totale
dove ciò che era debolezza diventa forza,
ciò che era tristezza, diventa gioia…
Ci fu una tregua a casa di mio padre, ora si stava riprendendo, la badante con cui non si era trovato bene non c’era più, avevamo richiamato Grace che aveva accettato di venire ogni giorno per aiutare il papà per ogni suo bisogno. Riprese a dormire, a mangiare e tutti i giorni puntualmente andava a trovare la mamma.
In mezzo a tutte queste vicissitudini ero comunque riuscita ad ultimare gli esami, ci avevo messo due anni in più rispetto all’arco di tre anni previsto ed ora potevo dedicarmi alla tesi. Avrei conseguito il diploma in scienze umane, diventavo counselor, quello che una volta rappresentava per me un sogno irraggiungibile, questo mi dava gioia, mi dimostrava che ce l’avevo fatta; cosa nel concreto questo potesse significare non lo sapevo perché le condizioni in cui mi trovavo mi parlavano di precarietà, imprevedibilità, di non sicurezza…d’altro canto non potevo rinunciare a vivere quel momento presente di soddisfazione personale che portava in se comunque un arricchimento interiore per ogni passettino fatto. Ora mi stavo calando nella conoscenza del personaggio che avevo scelto per la tesi, una giovane ragazza che aveva fatto della sua breve vita un raggio continuo di luce per tutti coloro che la incontravano e la frequentavano. Aveva perso la vita in un incidente e pochi giorni prima che questo avvenisse, aveva scritto che si era sognata il suo funerale pieno di fiori. Il suo diario che aveva iniziato a scrivere all’età di dieci anni fu raccolto e custodito dal sacerdote della nostra associazione e diventò la valida testimonianza per intraprendere il cammino di beatificazione all’interno della chiesa. Allora non sapevo che dopo quindici anni il papa l’avrebbe dichiarata venerabile che è l’accesso alla santità. Un fatto straordinario tra i santi canonici che quasi tutti avevano compiuto miracoli od avevano vissuto fatti straordinari soprannaturali, niente di tutto questo, lei era una giovane apparentemente normale, fidanza, che frequentava la facoltà di medicina che però nel suo quotidiano già in giovanissima età furono riconosciute virtù eroiche, quali quella di dedicarsi ai poveri, di pregare intensamente facendo adorazione tutte le sere, in una generosità spiccata verso tutti in una donazione totale della propria vita senza trascurare i doveri dello studio, della famiglia e del fidanzato. Proprio lei avrebbe aperto la scia dei ‘santi della porta accanto’, di quelle persone cioè che conducono una vita silenziosa dentro la quale si spendono totalmente per l’ amore delle persone, in unione mistica col Signore ed io, senza ancora saperlo avevo scelto lei. Più approfondivo la sua vita più mi sentivo attratta dalla contemplazione, dall’amore ai poveri, dalla preghiera silenziosa e una sorta di empatia mi trasportava nella sua vita, come se fosse la mia ed anche quando finivo lo scritto che stavo producendo, questo sentimento rimaneva in me e mi animava la giornata. Quando poi la nostra associazione seppe che avevo fatto la tesi su di lei, mi chiese se volevo pubblicarla e così si realizzò l’edizione di un libro intitolato ‘Beati i puri di cuore.’
Mi chiedo ancora oggi come sono riuscita a conciliare tante cose, come se una forza opposta a quella che mi spingeva a ripiegarmi sulla mia malattia che realmente esisteva e mi spingesse verso un sentimento altro, aleatorio ma deciso, libero, trasparente, qualcosa che nulla e nessuno poteva trattenere. Lì ero veramente me stessa, lì il cielo e la terra si conciliavano e le paure si dissolvevano. Non cercavo di darne un significato perché mi bastava assaporare quei momenti e rendere lode a Dio che magnificamente si manifesta con luci fortissime fra le piaghe della nostra amara esistenza. Di tutta me stessa stavo andando all’osso, non c’era più posto per alcuna mistificazione vivevo i fatti per quello che erano in modo nudo e crudo, le persone con cui mi rapportavo credo, vedevano queste forze che agivano in me, e seppur trepidanti penso cogliessero che c’era qualcosa di speciale che mi sosteneva e a volte mi elevava, quasi dei piccoli voli al disopra di tutte le nostre problematiche.
Sì nelle mia storia esistevano questi voli ce n’erano stati di diverso tipo, a volte erano distacchi che rappresentavano nella maggior parte dei casi delle fughe. Fughe da ciò che mi era diventato insopportabile, fughe dalla responsabilità di mettermi a confronto con la realtà, fughe dalla speranza di poter cambiare le cose. Cosa succede in questi casi ? Succede che tu credi di aver lasciato alle spalle il tuo passato, i tuoi genitori, invece no, ti porti tutto dentro lo zaino, sempre, ovunque tu sei. Inoltre quegli stacchi dalla realtà improvvisi, forti, non delicati che sono suscitati dalla spinta di un’emozione, danno subito una forte ebbrezza, ma che dura poco, svanisce presto come un palloncino lasciato andare che sale in alto mentre tu rimani a terra disperata. Quando facevo queste esperienze ero completamente fuori di me, nel senso che cercavo tutto fuori e, poiché la risposta non era lì, passavo da una delusione a un’altra. A un certo punto capii che stavo andando proprio male, ma in quel tempo non conoscevo nessun’altra via.
Cosa avvenne a quel remoto punto della mia storia, vent’anni prima dei fatti che vi sto raccontando? Avvenne che la mia coscienza fu investita dalla presenza di Dio, padre creatore del cielo e della terra, colui che solo facendomi sentire piccola al suo cospetto, mi faceva sentire persona viva e vera. La natura a cui mi ero persino abbandonata affidata come se fosse lei creatrice e non opera creata, ora mi parlava: “Guarda il cosmo, le leggi dell’universo così immensi e imperscrutabili sono così perché sono l’opera di Colui che tutto ha fatto, guardati intorno questa è la realtà” ed io incominciai a risvegliarmi, era una cosa così immensa, così affascinante ed allo stesso tempo terribile. Dove ero stata fino ad allora, contro chi avevo combattuto ? Tremavo dentro di me, tremavo di fronte a quella bellezza e al rivelarsi della verità, d’istinto mi buttai in ginocchio e incominciai a piangere a chiedere perdono. Fu allora che conobbi la misericordia il Signore, la dolcezza del suo amore. Da quel momento si aprì una luce intensissima che durò a lungo ma era molto esigente, quando rientravo in modalità materialiste, grossolane, spariva, ma appena rientravo nella finezza spirituale riemergeva. Anche ora nella malattia della depressione sentivo il cuore libero, era la mia mente e la mia parte emotiva che risentiva ancora delle distorsioni avvenute in passato e non funzionavano bene. Il Signore utilizzò anche quello per farne un’ulteriore pedagogia di ascolto profondo della sofferenza. Solo così, attraversandola avrei potuto capire la sofferenza degli altri che impera ovunque, in ogni ambiente ma in quelli più miseri e poveri diventa enorme macigno.
Intanto le persone della nostra associazione ci consigliarono di spostarci in un’altra città dove avremmo avuto vicino degli amici, la cosa mi sembrava potesse risolvere veramente quella situazione di stallo in cui ci trovavamo e mi volli abbandonare con fiducia a questa proposta. Ricordo di una passeggiata, da sola, lungo il mare, mi sentivo leggera, felice, sentivo vibrare le corde dell’amicizia, quel sentimento così bello che ti rimette in un gioco con tutti gli altri che ti fa uscire dal tuo isolamento e confidare nella collaborazione degli altri.
Iniziarono i lavori per il nuovo trasloco. Essendo ormai esperta di traslochi anche questo riuscii a farlo quasi automaticamente come se facesse ormai parte della normalità della nostra vita. Con le ragazze continuavamo a tenerci degli spazi per noi, per fare quelle piccole cose che ci davano gioia e ci ci facevano sentire in continuità col vivere la festa del quotidiano, cosa che avevamo sempre fatto e che ci dava la voglia di sorridere per un nonnulla e chi ci incontrava rimaneva stupito della nostra freschezza, dell’ entusiasmo per cose che agli occhi degli altri erano scontate. Per noi non lo erano affatto, era anche questo che ci faceva gioire, quando riuscivamo ad avere ciò che necessitavamo e qual cosina in più in mezzo al marasma di tante cose difficili ci sembrava un miracolo. E’ la mistica gioia dei poveri !
Nonostante tutti questi miei tentativi di mantenere il timone della nostra barca, presto la situazione precipitò. Quella nuova casa che ci doveva essere non si trovava e l’inverno si avvicinava. Eravamo temporaneamente alloggiate in un appartamento che ci era stato dato provvisoriamente privo di riscaldamento. Questo punto divenne per me la punta dell’aisberg che mi fece crollare. “Come è possibile affrontare il freddo, siamo di nuovo state abbandonate, ora cosa posso fare, non ho più carte da giocarmi ? Le mie ragazze, come posso assicurare loro quella calda intimità della casa ?” Ero sfinita e questi pensieri presero il sopravvento su di me, si ripetevano centinaia, miglia di volte, entrai di nuovo nello stato difensivo. Allora non mi era così chiaro, evidente che ogni stato difensivo mette in atto la nostra parte più egoica a discapito di quella spirituale e che in questo senso tu reagisci automaticamente con le stesse modalità che mettevi in atto da bambina che non possono essere la risposta, ma che ti buttano sempre più nel baratro. Così avvenne e si accumolò in me tanta rabbia che come una miccia riattivava tutte le rabbie del passato. Sono veramente poche le persone che possono aiutarti in quei frangenti perché in pochi conoscono la semplicità di queste potenti dinamiche: la rabbia è distruttiva e non ha ragione, ma ha le sue ragione che necessitano di essere espresse senza valutazioni di merito, devono esprimersi liberamente senza nulla trattenere, le modalità per farlo sono senz’altro l’ascolto da parte di qualcuno ed anche lo scriverle.
In quella condizione difensiva la mia preoccupazione più grande erano le ragazze, dovevo proteggerle, ma come? Il chè era cosa vera, ma avrei dovuto affrontarla in tutt’altro modo, mettendomi all’altezza della situazione e parlando con schiettezza con le persone dell’associazione, esplicitando i bisogni con chiarezza, determinazione, non sentirmi così sola, non sentirmi come quella che appunto da sola avrei dovuto trovare tutte le risposte necessarie. Così faceva mia madre e questa era la catena da spezzare.
Incominciai a pensare di tornare nel continente, così si dice nell’isola, dove la realtà dell’associazione era più presente e così avrei potuto seguire i miei genitori più da vicino. Mio fratello era sempre più assente, percepivo che in si stava scatenando in lui tanta rabbia, impulsività, la sua ombra tenuta pressata dentro di sé per tanti anni ora usciva più aggressiva che mai, a volte mi faceva paura, non potevo contare su di lui per i nostri genitori, almeno al momento.
Quando parlavo di come stavano le cose con qualcuno, la risposta era quasi sempre la stessa: “Perché non ti avvicini ai tuoi ? Sarà tutto più facile e poi devi stare vicino a loro, non puoi abbandonarli !” Questo insinuava in me un senso di colpa e poichè il sensi di colpa non producono pace ma rabbia, questa si andava ad aggiungere a quella che già vivevo nel quotidiano.
Mio fratello era sempre più assente, quando ci incontravamo era aggressivo, avevo paura di lui. Come un gioco del destino così diversi e così lontani avevamo però una cosa in comune: eravamo tutti e due pieni di rabbia ? Non era forse l’eredità lasciataci dai nostri genitori ?
Vi risparmio i passaggi che ci furono per arrivare a trovare un appartamentino al terzo piano, senza ascensore, in centro Parma.
Nel frattempo, i servizi della Sicilia da cui proveniva la ragazza più giovane, mi indicarono come tutrice di lei. “Lei è molto brava con le ragazze, le ha proprio nel cuore, fa tutto per loro, abbiamo deciso di affidarle la piena podestà, sarà tutrice di Letizia.” Fu una cosa che mi commosse, non capivo come mai stava avvenendo questa cosa in un contesto di difficoltà che non corrispondeva, che non avrebbe potuto essere la risposta a tale riconoscimento. Una vocina interna così mi diceva anche se tutta la mia persona era però felice di questo riconoscimento che mi veniva gratuitamente dato, eravamo alla coop a fare la spesa quando ricevetti quella telefonata e mi scesero le lacrime sul viso. Letizia mi disse: “Perché piangi mammina”?
Di nuovo i lavori, il trasloco, l’inserimento di Letizia nella nuova scuola, il nostro in parrocchia, di nuovo la fatica di tutto questo, eppure devo dire che ogni volta facevamo incontri con persone belle che ci guardavano con occhi di stupore e benevoli e sempre ci venivano incontro. Provvidenza ? Senza ombra di dubbio.
Trovarmi immersa nella città, nel caos che presenta, lontana dalla natura che tanto amo mi sentii persa e pian piano ripersi anche le forze e tornarono le emicranie. ll clima umido, l’aria inquinata, lo stress non mi aiutavano, non era il mio abito e incomincia pian piano a provare disgusto per ciò che mi circondava e la rabbia incominciò a farsi sentire anche nelle piccole cose. Avevamo preso un piccolo cane in Sicilia, soprattutto per Letizia che adorava gli animali, affinché presa da questo interesse non risentisse troppo del colpo di dover cambiare ancora una volta la scuola, era un cucciolo, ma non era di razza domestica e nell’appartamento distruggeva ciò che gli capitava, per me era un’angoscia ma Letizia lo adorava. Ora lei doveva affrontare nuovi compagne ed era curioso perché accusava tanto la difficoltà, era come un gioco per lei. Di nuovo si sarebbe presentata come una ‘ragazzina speciale’ che se alcuni snobbato, sicuramente qualcheduno invece si sarebbe interessato in modo particolare a lei iniziando col farle dei piccoli regali. Passavamo molto tempo in casa, non era più possibile uscire così facilmente e con disinvoltura come in Sicilia, questo pesava a tutte e tre. Era Giulia l’angelo della situazione, sempre sorridente, sempre sollecita in tutto ed io ahimè a volte scaricavo un po’ della mia rabbia proprio su di lei, poi mi sentivo in colpa e il malessere aumentava.
Mi sentii con un amico che soffriva lui pure di emicranie e mi parlò di un neurologo di Parma molto bravo a cui mi sarei potuta rivolgere a suo nome, telefonai subito e presi appuntamento.
Ci incontrammo dopo pochi giorni, mi chiese da quanto soffrivo di questi mali e mi disse che in Germania e in Francia, le persone affette da emicranie a grappolo così forti prendevano la pensione perché è una forma invalidante che porta anche a varie forme di altre patologie della sfera neuro psichiatrica.
Mi diede la cura, non ricordo il nome del farmaco che iniziai a prendere. Dopo solo una settimana mi svegliai la mattina stremata, non avevo la forza di alzarmi, subito mi presi paura, ma feci finta di niente e mi sforzai per poter preparare la colazione. Era tutto quello che potevo fare, allora chiamai alcune persone chiedendo chi poteva accompagnare ed andare a prendere Letizia a scuola. Prontamente mi diedero la disponibilità ed io mi ributtai sul letto mentre Giulia sbrigava le piccole faccende in cucina e poi si metteva a fare le cose sue, scrivere, disegnare. Lei sembrava felice perché in cuor suo sapeva che stava assolvendo a un grosso ruolo: mi stava aiutando, mi stava sostituendo, manteneva un’atmosfera in casa di normale attitudine di serenità. Ancor oggi mi chiedo: chi avrebbe potuto fare questo ? Solo lei, così dolce, così semplice, così distaccata da falsi sentimentalismi dalle cose vane, una ragazza limpida priva di pensieri inutili che sapeva concentrarsi sulle cose importanti del contingente e, senza tante filosofie o studi realizzava appieno ciò che io ancora non ero capace.
Piano piano mi alzai, con Giulia facevamo l’elenco della spesa poi lei scendeva nei negozi sotto casa, anche se erano piuttosto cari, e preparavamo da mangiare. Io tornavo a letto e le dicevo passo per passo le cose da fare, questo durò qualche giorno e poteva sembrare uguale alle tante volte in cui mi ero dovuta fermare per le emicranie, ma questa volta avvertii che era una cosa diversa che usciva completamente dal mio controllo. Mentre ero sola in camera le lacrime mi scendevano e in quello scioglimento sentivo quanto ci amavamo, capivo che cos’era l’amore. In tutto questo tempo eravamo riuscite a gioire in mezzo a tutto il marasma della sofferenza e della preoccupazione, di piccole cose, a scherzare, a trovare la forza di sorridere ogni giorno. Che sensazione, era come se quella precarietà in cui ci trovavamo fosse la sola cosa che in quel momento che ci permettessero di essere felici. E il bello è che in fondo al cuore lo eravamo, ma non si poteva andare avanti così…!!
Guardai le controindicazioni di quel farmaco, al primo posto c’era la depressione. Mi chiesi come aveva potuto quel medico darmi queste medicine senza dirmi niente di una tale controindicazione. Sì c’era stata quella frase da lui fatta cadere in sordina sulle conseguenze che lo stato emicrania poteva portare ma senza entrare in merito più, se dovuto al farmaco che avrei preso. Quello resterà per me sempre un mistero: era tutta colpa di quel farmaco se si era scatenata depressione e avrei potuto evitarla o invece era necessario che esplodesse una volta per tutte ?
Lo sentii per telefono e gli dissi: ma dottore, questo farmaco mi sta provocando uno stato depressivo !! E lui rispose, “se pure avesse tenuto i suoi mal di testa, le sarebbe venuta ugualmente una forma di depressione”. Mi trovai in un vincolo chiuso, provai a procedere ancora una volta facendo piano piano tutte le cose, portare a scuola Letizia ad andare a riprenderla, ma non funzionava, non riuscivo. Il traffico mi irritava, guidare la macchina altrettanto, non si trovavano parcheggi, arrivavano multe prese senza rendermi conto dei divieti che ancora non conoscevo. In casa c’era bisogno di fare diversi lavoretti e chiamando interventi dall’esterno pagai somme esorbitanti per piccole riparazioni. La rabbia aumentava e do poi la desolazione mi si prospettava per ogni situazione ed io non avevo più forza per affrontare nulla. Passò una quindicina di giorni, la notte non dormivo più: erano incubi, quasi di allucinazioni. Mi alzavo con una gran rabbia, ma poi crollavo di nuovo in uno stato di prostrazione. Una domenica mattina, senza sapere né come né perché, mi sentii determinata ad agire così: presi la macchina e con le ragazze andai fuori Parma da una famiglia dell’ associazione che abitavano in una vecchia casa di campagna e senza tanti preamboli dissi loro:“Scusatemi se vi disturbo, se sono venuta qui da voi, ma sto male e non so dove andare con le ragazze.” Loro mi accolsero, ci misero a disposizione dei locali sotto il primo piano dove c’era una gran confusione di cose accatastate, era l’unico spazio che avevano. Non c’era luce, nel bagno giravano piccoli scorpioni. Mi guardai intorno, oddio era la fine, come potevamo resistere in un posto cosi brutto ? Eppure la mia scelta era l’unica che responsabilmente avessi potuto fare, chiedere aiuto, consegnarmi ad altri, essere consapevole che non potevo più farcela da sola. E quanto imprevedibili le connessioni che avvengono fra le persone, guarda caso avevo chiesto aiuto ad una persona, la madre della famiglia che lei stessa aveva fatto esperienza di depressione, sapeva molto bene di cosa si trattava, con me non si esprimeva tanto con me, di carattere asciutto, rude, ma mi faceva intendere che si trattava di una cosa seria, molto seria che avrei dovuto trattare da subito medicalmente.
La notte, non potevo dormire ero piena di ansia, rabbia, disperazione, semmai mi assopivo nella speranza che stavo sognando al risveglio realizzando che non era un sogno mi veniva la tachicardia, allora preferivo vegliare sempre per non avere ulteriori colpi di inflazione al mio stato emotivo e in questo mondo alla stanchezza del giorno si aggiungeva quella della notte. Mi alzavo distrutta, barcollavo, la vista era annebbiata. Durante la notte, quando mi alzavo più volte per andare in bagno ero presa da una sorta di forza di dovermi liberare da quella situazione mandavo messaggini di aiuto a chi pensavo potesse in un qualche modo aiutarmi e per un attimo mi illudevo di fare la cosa giusta. Perché, c’è da dire che la depressione nella forma euforica, prima di arrivare a quella letargica , quando cioè l’ansia supera te stessa, la tendenza è sempre quella di fuggire dal ‘pericolo’ di dove sei, cerchi affannosamente un altro luogo, quale rifugio, dove, semmai ci arrivi, dopo poco risenti la stessa ansia e il bisogno di fuggire ancora. Quando arrivava il giorno e incontravo le persone della casa, ero impacciata, non sapevo cosa dire, avevo solo bisogno di urlare quanto stavo male e che quella non era la mia vita che le ragazze non potevano stare così, senza le cose che non le avevo mai fatto mancare. No, no non era così, cosa stava succedendo? Ma con chi potevo dire tutto questo, lì ero ospite, cosa potevano fare loro per noi, non c’era una bacchetta magica che potesse rimettere a posto le cose. Le ragazze durante il giorno andavano ad un centro di accoglienza mentre io gironzolavo per la casa dicendo che stavo male. Fu questa l’espressione, la parola che predominò in me da allora per quattro anni, non seppi più dire altro se non per brevissimi stati di luce interiore che ricevevo e che mi estraniava dalla mia condizione. Di fatto ero piena di rabbia che voleva esplodere, ma mi comportavo al contrario come persona dimessa, debolissima che sottostava a tutti e a tutto sapendo di essere l’ultima persona di questa terra bisognosa solo di aiuto che elemosinavo senza ottenerlo. Le ore non passavano, mi sarei davvero voluta rompere il capo contro il muro. Ma perché era successo questo? Cosa non avevo fatto? Dove avevo sbagliato? Non trovavo risposta. Chi mi avrebbe potuto aiutare? Non mi rendevo conto che mi stavano già aiutando, naturalmente nelle loro possibilità. Sentivo odore di sporco, ciò che vedevo mi dava malinconia, era tutto di colore grigio e quello fu il colore che, ad eccezione di pochissimi momenti di luce, mi accompagnò per tanto tempo. Non solo non sapevo più chi ero, ma mi sentivo di essere qualcuno che non ero. La notte, che aspettavo, per potermici rifugiare, diventava poi luogo di prigione, di allucinazioni, di irrequietezza totale. Mi svegliavo, se così si può dire, presto, ma per fare che cosa? Forse un caffè, in una cucina che non conoscevo, che mi era estranea, dove non potevo assolutamente vivere quel piacere della colazione che facevo a casa mia. E le ragazze, ora non avevo più nulla da offrirgli, non avevo più nulla di mio e, cosa che mi amareggiava moltissimo, anche loro non avevano più la loro stanza, i loro oggetti, i loro vestiti. Eravamo accampate, ma come era successo tutto questo? Ripensavo all’appartamento lasciato che, seppur al terzo piano, ci aveva accolto offrendoci delle ‘piccole comodità’, ma quando poi il pensiero tornava alla casa in Sicilia, la prima, che avevo fatto diventare bellissima, pulendola, arredandola con tanto amore, sep- pur sempre nell’essenzialità, tutti gli oggetti, i mobili che c’erano erano carichi di ‘affetto’, li avevamo pensati desiderati e alla fine erano lì, presenti, per noi, per offrirci ogni giorno il loro confort. Il piccolo giardino e l’ orto che avevamo zappato pezzo per pezzo, dove avevamo messo i nostri bei fiori Quante ore trascorse fuori e dentro, con la consapevolezza che era la nostra casa, la più bella del mondo. Non c’era più. Eravamo sospese, in stand by…io, le ragazze. Avevo solo uno o due cambi di vestiario, raccolti in fretta una volta che mi avevano accompagnato nel nostro ultimo appartamento, che quando ci entrai mi sentii stringere il cuore dalla nostalgia dei giorni in cui eravamo state lì tutte insieme. Se potessimo capire l’importanza della relazione degli uni con gli altri !! Solo col senno di poi si comprende, siamo fatti per questo creati per essere in comunicazione all’inizio con la famiglia, poi con altri fino a moltiplicare gli incontri, gli scambi, i sorrisi. E’ questo che conta, che rimane, tutto il resto passa…Se io compero un divano solo perché mi piace, finalizzando l’interesse solo per la comodità che può dare, cosa vale ? Diventa importante quando quel divano rappresenta un luogo di incontro di comodità per stare insieme, allora tutto cambia. Ci sono mamme o zie che lasciano il celofan sulle sedie per anni preoccupatissime che possano sporcarsi, poi passano gli anni, quelle sedie hanno stufato e si cambiano per delle altre nuove. Lasciamo andare anche sulle sedie, anche se facciamo una macchiolina, saranno piene dell’affettività del nostro vissuto.
Disgressioni a parte io avevo perso tutto e stavo dando di matto, dovevo parlare, spiegare, dovevano aiutarmi a ritornare alla mia posizione di prima, mi dicevo; sì era vero, dovevo curarmi, ma che si facesse almeno nei migliori dei modi, fatto così mi distruggeva ancora di più…d’altro canto non c’era altra possibilità.. L’unica abitudine che avevo mantenuto era di andare a Messa la mattine. Dove trovassi la forza non lo so forse quella non era per me solo un’abitudine ma qualcosa che toccava la mia parte più profonda. Per fede sapevo e credevo che dal quel sacrificio di Cristo scaturiva una grande forza per l’esistenza personale e per il mondo intero. Diventava in effetti penoso per me ora vivere questo momento così importante dentro la mia ansia sicchè mentre lo desideravo, la mia emozione psichica era quella che finisse al più presto; questo conflitto mi faceva male. Cercavo di porre l’attenzione sulla parola ma la mia mente sfuggiva, non era più sotto il mio controllo pur tuttavia non rinuncia quasi mai all’Eucarestia nei quattro anni della mia malattia, né alla recita del rosario. Mi ero procurata di avere sempre con me una piccola radiolina così che potessi ascoltare il rosario sulla frequenza di radio Maria. Ora ricordo che le persone della casa dove stavo mi suggerivano di andare in macchina, così partivo con le chiavi in mano poi ogni cosa per cui dovevo mettere attenzione mi procurava un’ansia tale, che pur volendolo fare, rimanevo impacciata come se non avessi mai usato un’auto. Pian piano incominciai a rinunciarci, anche se non del tutto. Stavo male, stavo troppo male, potevo avere un’autonomia di mezz’ora, al massimo un’ora e poi dovevo andare da qualcuno a dire che stavo male, dopo una visita da uno specialista inizia a prendere delle gocce, era un calmante abbastanza forte, ma a cosa serviva, mi calmava per un’ora forse due e poi tutto tornava come prima. Forse ero io che non collaboravo, avevo sempre avuto avversione per i medicinali avevo sempre cercato di curare i miei mali con metodi naturali, ora di fronte a questo farmaco la prima cosa che pensai era che ne sarei diventata dipendente, allora iniziavano i pensieri più raccapriccianti: “e se una volta non avessi più avuto a portata di mano la medicina, cosa sarebbe successo ?” Comunque le presi, nella condizione in cui ero non potevo che provare qualsiasi cosa che mi potesse sgravare da quell’ansia che mi distruggeva”. Avevano un gusto amarognolo, sentivo la lingua che mi si ingrossava e mi rimaneva quella sensazione per diverse ore. Dopo aver preso quelle goccie mi veniva sonnolenza e mi abbandonavo a un piacevole torpore che sembrava finalmente liberarmi dall’ansia, ma, ahimè durava forse mezz’ora o quaranta minuti, poi eravamo da capo, stavo male, stavo male. Mi veniva chiesto di fare qualche lavoretto, per distogliermi da quella fissicità in cui ero, provavo ma che non riuscivano a distrarmi, anzi dover stirare i panni, o scopare le stanze aggiungevano ansia su ansia perché vedevo che non riuscivo a mettere insieme uno più uno e subito mi sentivo stanca, bisognosa di accasciarmi sul divano o sul letto. Le ragazze capirono che la ‘mamma era malata’, e veramente in modo responsabile andavano dove veniva loro indicato. Oh miei piccoli, grandi angeli custodi!! Non vi avrei più avuto più con me. Perché, perché?! Questa domanda mi assillava, nessuno aveva il tempo di darmi più di tanta attenzione e così restavo prostrata nella mia angoscia. In quel tempo non sentivo neppure mio padre, né mio fratello. Passavano i giorni in quel grigiore di lamentele di rimpianti e di disperazione, avrei potuto pensare di compiere qualche brutto atto ma la mano del Signore era su di me. Nei miei pensieri ero molto arrabbiata con coloro che negli ultimi anni non mi avevano aiutato nel momento del bisogno, quando io avrei potuto riprendermi ed affrontare le cose assai diversamente con l’aiuto di un’altra persona, ero arrabbiata con me perché non ce l’avevo fatta a portare avanti tutto il bel progetto che avevo tra le mani, o meglio, nel mio cuore. La rabbia non ha ragione perché ti porta e ti dice di fare cose che non ti aiutano, però anche lei ha le sue ragioni e proprio in quei momenti sarebbe un aiuto grandissimo avere la possibilità di tirar fuori, di esplicitare quella rabbia. Non necessariamente con una psicologa che ti fa parlare parlare e a certi livelli non serve più, ma piuttosto ambiti ristretti di gruppo dove attraverso moduli studiati, molto semplici la persona può dire questa rabbia e in un secondo tempo accoglierla. Per me ad esempio era possibile solo un confronto con persone di cui avevo una certa soggezione, di cui avevo paura di essere giudicata e di compromettere ancora di più la mia situazione e provavo fastidio anche verso le persone con cui stavo in quel momento, perché non si mettevano in un rapporto alla pari facendomi capire che ora io mi trovavo in quella condizione lì ma sarebbe passata, che sarebbe potuto capitare pure a loro, no, no, si trattava di un altro atteggiamento, loro erano i bravi che mi aiutavano, io la poverina, questo era quello che io percepivo. Mi offenda il fatto di essere vista solo come ero in quel momento senza prendere in considerazione tutto ciò che di bello, di positivo avevo potuto fare prima. Ora ero come una scema questo lo riconoscevo anch’io, ma se prendiamo un corridore che si spacca una gamba e rimane immobile, come viene considerato da chi lo vede solo per quello che è in quel momento lì. Nulla un incapace di muoversi. Così percepivo gli altri nel relazionarsi a me, ad eccezione di alcune persone più sensibili, che mi dimostravano un’apertura di pensiero più ampia. Mi veniva offerto di partecipare a cene, a feste, provai ad andare ma stavo troppo male per riuscirmi ad adattare a relazionarmi, scadevo prima o poi nel parlare del mio malessere oppure mi rifugiavo in qualche angolo. Ora capisco quanto è ingiusto giudicare la persona che vedi ritirarsi dal gruppo e non ti parla, come se la colpa fosse sua, cioè come se fosse un comportamento libero, non è così, semmai quella persona vorrebbe, ma non riesce. A seguito della mia continua lamentela del malessere che sentivo, presero un appuntamento da quello psichiatra che mi aveva ordinato le goccie.
Vento che sfiori il viso, che muovi i capelli,
sei forse rimasto solo tu ad accarezzarmi…
Se così è grazie amico vento. Si tu mi stai dando sollievo
Mentre cammino e sento i miei passi più leggeri e tu
Ancora sfiori il mio viso. Mi stai svegliando amico mio, sento
Che il mio corpo si riprende, per un attimo.
E’ piacevolissimo e poi mi gurdo intorno e …vedo !!
I fiori, l’erba, gli alberi. Quanto abbiamo bisogno della
natura ! Quanto ci nutre col la sua presenza, quanti ricordi
ci fa emerge….Il verde, il colore della speranza !!
Era un dottore vecchio stampo, sorridente e benevolo, da cui percepivi un senso di accoglienza, di autorevolezza empatica, certamente qualcuno su cui potevi porre fiducia. “ Ma tu non hai niente” mi disse! Eh, che sollievo che provai, sentirmelo dire da lui! Cosa significava ? Io sapevo bene che la mia forma emotiva-cognitiva non stava funzionando correttamente, ma che di fondo io ero sana, cioè malata, ma che la mia mente non era sempre stata così, era altrettanto vero. Mi ero sentita capita, mentre già diverse persone dell’associazione incominciavano a prendere un tantino le distanze da me….e sotto un certo aspetto le capisco, ero diventata noiosissima, non facevo che elencare i miei mali e le mie paure. E questo fu un primo passo positivo verso la malattia che poi presto contraddissi con tanti dietro-front. Mi diede la cura, chiesi pastiglie al posto delle gocce e lui acconsentì, anche se mi disse: “Mia moglie quelle goccie le prende da vent’anni”. Anche questo mi diede una certa rassicurazione, se le prendeva anche sua moglie non dovevano essere poi così devastanti..Si incominciava ad aprire in me un varco ancora piccolo di apertura verso la medicina per le malattie mentali. I miei pregiudizi era forti, dovevo riconoscerlo; tornai a casa soddisfatta di quell’incontro, rincuorata. Durò poco, ricaddi nel vortice dei miei pensieri angosciosi. Non riuscivo a trovare in quella casa un minimo di corrispondenza al bisogno che sentivo, non per colpevolizzare qualcuno, ma perché le cose stavano così. Avrei avuto bisogno di una stanzetta tutta mia o con le ragazze, bella ordinata, con fiori, colori rilassanti, poi avevo bisogno di stimoli che andassero incontro al bisogno di quel momento riattivando però anche le mie competenze del passato, seppur in piccolissima parte. Tutto ciò non c’era, e allora ? Facevo passare i giorni così senza che contassero alcuna cosa per me. Un pomeriggio accettai di andare ad una festa di compleanno. Arrivata che fui mi guardai intorno, mi sentivo un pesce fuori d’acqua, mi prese l’ansia sempre più forte, sentivo il desiderio di scappare o almeno di isolarmi. Mi rifugiai in una macchina parcheggiata. Ecco, mi ero allontanata ed allora, che sollievo mi dava? Di scatto uscii e andai verso una persona per null’altro dirle se non che stavo male. La cosa si appesantì fino al punto che un giorno mi portarono al pronto soccorso. Ero sul lettino in attesa fra tante altre persone, ma in attesa di chi, di che cosa? Non potevo abbandonarmi né rilassarmi dieci minuti, la mia testa era bombardata da pensieri che mi torturavano. “Hai visto dove sei finita? Proprio come una tossicodipendente o una barbona..!!” Avevo perso tutto, ero sola, le ragazze le vedevo sempre meno, ci avevano separato e le avevano inserite durante il giorno in una cooperativa di lavori protetti. “Si ricorderanno ancora di me ?” mi chiedevo… A un certo punto sentii chiamare il mio nome. Entrai in un ambulatorio, la dottoressa mi fece sedere e mi diede subito da bere dell’acqua con valium. Non mi chiese quasi nulla, relazione zero, forse aveva fretta o le avevano già comunicato che necessitavo un ricovero. C’era stato un momento di ribellione in me, ogni tanto la rabbia spingeva per esprimersi, ma cosa potevo fare ? Se anche dicevo no, non prendo il valium, ed allora ? Non ero lì per non stare più così male ? I rimedi erano quelli non favole romantiche con risvolti magici. Appena dopo aver bevuto mi senti arrendevole come un piccolo cagnolino. Era persino piacevole, avevamo stroncato momentaneamente l’ansia, in quelle condizioni ti accontenti anche del ‘momentaneamente’. Mi portarono nel reparto di psichiatrico dove tutte le porte sono blindate, mi fecero vedere una saletta di accesso dove potevo andare a mangiare, poi la mia stanza, pulita, col bagno, entrai e fu subito chiusa a chiave dagli infermieri. E adesso ? Ero proprio braccata. Io, solo io con alcuni santini che tirai subito fuori dal mio portafoglio e li misi su un bordo del muro. Li guardai, erano solo noi i santini ed io, ero li pregai, mi misi a piangere, ma non avevo neanche la forza per fare quello, mi sdraiai sul letto. Ora poteva iniziare un conto alla rovescia, l’inizio di una discesa agli inferi. Cercavo conforto nel letto, era sempre un andare su e giù dal letto. All’ora di pranzo aprirono la porta ed andai nella saletta per mangiare, i cibi erano incellofanati, le posate di plastica. Eravamo in tre, un ragazzo, io ed un altro uomo. Lì non ci si saluta nemmeno, semmai si dice qualcosa in riferimento al cibo, poi ognuno di nuovo se ne va per la sua strada, ciò nel letto. Ritornata in stanza piangendo pregavo il Signore, forte che mi aiutasse, avevo anche cercato di avvicinarmi a una porta, tutto intorno c’era l’allarme e poi che avrei fatto nel caso ? Certo è che una caratteristica della depressione e quella di fuggire, senza sapere dove, da ogni posto, da ogni situazione, fuggire, per spostarsi in un altro luogo da cui fuggire ancora, una forma interna coatta. La sera passò l’infermiere per l’iniezione di valium per la notte. Dormi tutta la notte. La mattina fecero il giro, i dottori ed io gridai, “non voglio stare qui, no, non voglio, mandatemi a Villasole ”, la clinica dove ero stata dall’anziano psichiatra. Mi rispose uno di loro: “Beh, forse quello si può fare”. Ebbi un sussulto, il Signore mi ha ascoltato e mi sembrava di tornare alla vita perché in quel reparto è la fine…priva di ogni contatto, nell’ isolamento totale non si può che peggiorare, i pensieri si fanno sempre più oscuri e paranoici. Insieme ad altre tre persone fui trasferita nella clinica dove eravamo andati la prima volta. Salimmo sulla croce blu, c’era una ragazza che teneva un casco in testa per evitare fratture in caso di cadute, sicuramente soffriva di epilessia, poi altri due ragazzi che non mi ispiravano granchè, erano comunque i miei compagni di ventura; ci tenevano tutti e tre ben saldi al seggiolino mentre l’ambulanza girava e saltellava finché arrivammo alla clinica che si trovava nelle colline in mezzo al verde. Fu una sensazione piacevole, la natura che grande potere di calma che ha.. perché la natura è la meravigliosa creazione che Dio ha fatto per l’uomo. Anche il personale infermieristico era gentile, rispettoso, mi diedero tutte le informazioni circa le cose che avrei dovuto fare, esami e visite mediche, il fatto che si vedesse la malattia in uno spazio più dilatato, non solo della mente, alleggeriva la mia ansia, mi faceva avvicinare ad un concetto più normale di malattia. Sentii che mi potevo “consegnare” a loro e questo fu la carta vincente per stare un po’ meglio. Le domande assillanti diminuirono, quasi esaurirono, mi sentivo come una malata che si deve curare e di cui i medici e le infermiere si prenderanno cura. Erano visi sorridenti, che cercavano subito di metterti a proprio agio, pronti ad ascoltarti se avevi bisogno, medici competenti, in particolare il “mio dottore”che era molto gentile con tutti, si fermava a parlare nel corridoio senza fretta. Mi vennero a trovare alcune persone della mia associazione e mi portarono dei biscottini al cioccolato, erano buonissimi, ne offrii anche alla donna che stava nel posto-letto accanto al mio. La sorpresa fu al mattino quando trovai la scatola completamente vuota, me li aveva mangiati tutti e quando l’incontrai in modo brusco quasi non mi salutò. Io lasciai perdere , mi muovevo negli spazi disponibili, stavo spesso fuori nel giardino. Passavano i giorni, avevo chiesto sin dall’inizio di poter andare alla messa quotidiana, mi era stato concesso, la chiesa non era lontano, bastava scendere tutto il viottolo interno fino ad arrivare sulla strada, da lì a poco si affacciava il bel porticato della chiesa. Ero tranquilla, trovai anche la forza per telefonare ad alcuni amici e dire dove mi trovavo. Dopo una seconda settimana il medico mi disse che stavo meglio e che mi avrebbe dimesso. Mi sentivo così bene che chiesi di andare da un’amica dell’associazione, arrivai da lei serena tanto che si meravigliò del mio stato e mi disse: “non sembra proprio che tu sia depressa”. Incontrai altre persone le quali pure mi dissero che mi trovavano bene. Ma questo durò solo qualche settimana, poi puff….tutto sparì e ricaddi in uno stato di afflizione. Come mai, cosa è successo mi chiedevo, non riconoscevo nessun elemento che fosse stato condizione dello sfiorire di quello stato di “assopimento psichico”, certo è che la realtà era quella che era, le ragazze non erano più con me, non sapevo nulla di loro, io non avevo più una casa mia, la condizione dei miei genitori era un po’ stabilizzata, ma in quella che è la precarietà di persone molto anziane di cui la mamma in stato senile grave. Ritornarono ad affiorare nella mia mente i rimpianti, erano come animali che mi mordevano e mi facevano star male ancora, di nuovo, quasi tutto il giorno, addirittura mi partiva un pensiero che elaborava tutte le possibilità che ci sarebbero potute essere per rimettere in moto la vita di prima. Il punto è che nella vita non si può più tornare indietro, nulla si ferma per aspettarti, tutto è in movimento, in dinamismo, ti immagini delle cose ma esse sono completamente cambiate. Incominciai a telefonare agli amici della Sicilia chiedendo loro perdono per tutto ciò che di male avevo fatto, dicendo che avevo bisogno di loro, elemosinavo amore da tutti umiliandomi senza motivo nella speranza che ciò avrebbe dato motivo ai fratelli che io tornassi, non mi rendevo conto che quella non era più la realtà che avevo lasciato. Nella casa dove avevamo vissuto si erano alternate altre persone, diverse attività erano pure cambiate, ma io non badavo a questo ero tutta presa da un aspetto morale, dovevo recuperare i rapporti, neanche sapevo bene che cosa era una fissazione, volevo tornare là e misi in moto delle situazioni che mi permisero di farlo. Riuscii ad organizzare il viaggio con un ragazzo che da Parma andava in Sicilia per le sue vacanze,come riuscii ad organizzarmi e a partire non lo ricordo proprio, di fatto arrivai in Sicilia. Non ritrovai nulla di quello che avevo vissuto là quando ero con le ragazze, ora tutto mi appariva molto più quotidiano, come ogni altra città. Dov’era finito l’incanto di ciò che avevo tanto agognato ? Incominciavo a capire che lo straordinario non era nel paese, che sì era bello, ma ciò che lo rendeva così eravamo noi, siamo noi gli artefici dell’armonia del luogo in cui siamo. Se noi ci spegniamo, lui si spegne, se siamo nella gioia, tutto brilla. Non possiamo restare attaccati al passato, possiamo riviverlo col pensiero tante volte quanto vogliamo, ma il passato non si ripete più e intanto perdiamo il presente, eppure anche ciò che è ovvio, quando sei nel vortice dell’ansia, della paura, della difesa, non lo vedi, rimani fissato al pensiero che ti sei fatto a cui ti sei aggrappato e che non vuoi mollare. Così bloccata non potevo lasciar entrare alcun spiraglio di luce. Mi ci è voluto tanto tempo per imparare a prendere le distanze da questi risucchia menali, e ad imparare gradualmente l’abbandono. Quante volte avevo letto libri che trattavano questo tema e come esperienza già c’era stata una prima consegna della mia vita al Signore, quando avvenne la mia conversione all’età di trentasei anni, ora si ripeteva l’esigenza di ripetere l’abbandono, eravamo sempre lì, ma forse in un secondo girone che pian piano tende alla sua risalita. Non pensavo che la vita spirituale portasse a rivivere condizioni estreme già vissute, solo vestite in modo diverso, che si trattasse della notte oscura a volte l’avevo pensato, ma, non sono in grado di distinguere quanto di psichico, quanto di spirituale poteva passare in me.
Ritrovai dunque quel posto tanto ambito, la Sicilia, come un luogo in cui erano presenti situazioni di difficoltà molto simili a quelle che vivevo io. Difficoltà di locazione, quindi di non poter dormire bene. Un termosifone rotto per cui la doccia si può fare solo fredda. Anche le persone non le vedevo cariche di tutto quell’ affetto che avevo investito su di loro in questi mesi di lontananza, anche loro, agivano, corrispondevano coi limiti propri di ciascuno. Avevo fatto questo viaggio per vedere che anche lì le cose non erano quelle che avrebbero dovuto essere, ma quelle che sono. Quanto ero dura di cervice, volevo o non volevo sciogliere quell’idealizzazione che mi ero creata ? Quella “magica” condizione di rifare un puzzle non esisteva, ora dovevo fare i conti con altro. Forse mi era servito ritornare per vedere coi miei occhi come stavano le cose di fatti non pensai più alla Sicilia, ma la mia fuga dal prendere in mano la mia vita per quello che era continuò. Sentivo di tanto intanto una voce lontana che mi cullava, quante volte, avevo dovuto trovare un po’ di ristoro in quella voce lontana… Da bambina, quando appiccicavo il mio nasino contro il vetro e soffiavo per vedere il vetro annebbiato, quando perdevo il sorriso della mamma, che non c’era, ma perché non c’era? L’avrei voluta portare con me ovunque, ma lei era diversa da me, non si esprimeva così, ma in un altro modo….che per me era non vita. Signore, perché ci hai fatto così diverse ? Ed ecco, quella voce in lontananza che tornava a cullarmi dicendomi: ‘Anche lei non aveva avuto una mamma che la guardasse negli occhi, che la accarezzasse… ma io non vi lascio sole… voi sarete con me.’ Anche la mia dolcissima ragazza non aveva avuto una mamma che giocasse con lei alle bambole, anzi, tutt’altro, ed anche la più piccola aveva dovuto patteggiare ad alto prezzo per avere un po’ di “affetto”. Non potevamo fare altro che consegnarci a Lui. Lui solo poteva colmare il nostro vuoto, lenire la ferita d’amore.
A volte riprendevo gli appunti dei miei studi per vedere cosa ci ritrovavo rispetto quello che stavo vivendo. Ripresi quelli sulle emozioni. “Le nostre emozioni sono sacre, perché le emozioni non sono mai giuste e non sono mai sbagliate, le emozioni sono la risonanza, l’eco sono le antenne recettive che ogni essere umano porta fin da bambino, da bambina, da neonato, da neonata. Fin da dentro la pancia della mamma noi incominciamo a registrare il flusso delle sensazioni ed emozioni, lì incominciamo a registrare la nostra così detta vita psichica che poi diventerà cosciente e sempre più consapevole col passare degli anni, ma che in realtà ha i suoi primi arbori proprio in quella stagione. Una stagione dove sembra che tutto non ci sia, ma invece, per quella creaturina è già tutto vivo più che mai.
Quando le nostre emozioni vengono giudicate negativamente, questo ci blocca, allora noi siamo, come dire, bloccati dal poter esprimere ciò che sentiamo, ciò che vibra. E’ come una chitarra che suona e noi diciamo: non suonare!! Come un pianoforte che espande le sue note da quelle più forti a quelle più basse, e noi diciamo: nò, non suonare il pianoforte delle tue emozioni.
Le emozioni vanno poi in un qualche modo guidate, vanno, come dire, messe al servizio della nostra esistenza, vanno messe al servizio della nostra crescita, al servizio della conoscenza di noi stessi. Noi possiamo, a qualsiasi età imparare a vivere correttamente le nostre emozioni, perché vivere bene le nostre emozioni, è indice di salute emozionale.
Sentir parlare di queste cose mi apriva il cuore e l’ intelletto, mi faceva bene, mi dava speranza, potevo ancora imparare a vivere bene le mie emozioni e a liberarmi dall’ansia, dalle paure, che gioia, sarebbe stato bellissimo, “Dai che ce la facciamo”, mi dicevo. Ritrovavo alcuni spiragli di luce, di pace di tenera accoglienza della mia piccola bambina.
Intanto un mio amico, sacerdote che mi aveva conosciuto in piena attività e gli chiesi se potevo andare per un periodo presso le suore di Firenze, vicine della casa che avevo avuto in passato. Lui acconsentì ben disposto a potermi aiutare, ma anche quello una un trabocchetto, stavo sempre cercando di rivivere le cose del passato, era tutta una mistificazione. Le sorelle mi ed io mi sentii così bene nell’essere accolta con tanta benevolenza. Mi lasciai cullare dall’atmosfera che c’era, dalla preghiera, dall’incontro con persone molto spirituali e dimenticai la mia condizione reale ma la cosa durò in tutto più o meno una settimana, poi ricaddi nel mio baratro. Incomincia a perdere le forze, non andavo più alla preghiera con leggerezza, cercavo di tornare a letto la mattina, contattai una signora che conviveva con la depressione, allora si creò una sorta di complicità, potevamo capirci…!! Anche questa era un’illusione, fu un incontro piacevole, sì ed anche sincero, mi aiutò anche economicamente, mi sembrò che la sicurezza che poteva darmi fosse qualcosa a cui aggrapparmi. Sempre presso quelle suore incontrai altre donne molto spirituali che, sentendomi parlare si commuovevano per la mia salute e si buttavano a capofitto per aiutarmi, mi provocarono a fare la domanda della pensione di invalidità. Ero sostenuta da queste relazioni, per lo più improvvisate, ma io dov’ero? Quando me ne resi conto entrò in me stanchezza e avvilimento. In verità ero sola come un cane, questi affetti non risolvevano la questione profonda, ma solo superficial, la mia sete era nel profondo di me stessa, dovevo cercare di contattare la mia sorgente interiore, non bastavano più le preghiere doveva avvenire un fatto reale esistenziale dal quale e nel quale la fede avrebbe di nuovo rifluito. A un certo punto dovetti partire e ci lasciammo col proposito di risentirci presto con la signora con cui avevo strinto amicizia. Non ricordo più dove andai, ma so che tenevo l’indirizzo di quella persona, come rifugio dove sarei potuta ritornare. E così avvenne ritornai da lei, perché è proprio così che avviene, si cerca la persona che ha il tuo stesso condizionamento. Stavamo sul letto a raccontarci i nostri mali, poi finì che lei mi iscrisse a un corso tenuto da una omeopata ed il suo gruppo, quale esperienza emotiva-esistenziale. Accettai di andare e mi calai anche in quella dimensione di pseudo intellettuali, forse naturalisti, che avevano trovato il loro ”mandala”, il centro dell’essere e riuscivano a trasmettere anche agli altri il benessere derivante. I posti erano belli, in campagna, i colori, le persone pure erano belle, eppure avevo la sensazione che tutto quello non valeva un fico secco, seppur era piacevole venire a contatto con persone che riuscivano a penetrare nel tuo profondo, con uno sguardo, un sorriso, non poteva bastare un corso di pochi giorni per risolvere una questione esistenziale. Diciamo che da esperienze di questo tipo si possono trarre spunti, ma nulla di più. Il corso finì, io partii e la mia amica era contenta di aver fatto qualcosa per me..In seguito dovetti contattare un’altra signora che controllò se la domanda della mia pensione stava procedendo, lei aveva conoscenze all’interno dell’Inps. Anche la pensione era un printing familiar rilevante, con quanta solennità si parlava della pensione nella casa dei miei genitori !La pensione era tutto, su di essa si poneva tutta la fiducia. A volte io dicevo: “Ci penserà Dio”. Guai a citare una frase del genere, “Dio dice che ci devi pensare tu, lui non può mica farlo per te.” Aveva ragione anche lei certamente, è un diritto necessario alla vita di una persona, ma quando tu ne fai un idolo e fai ruotare la tua vita intorno ad esso, c’è qualcosa che non va. La stessa cosa per i soldi, quanto erano importanti per i miei genitori ! Ci avevano condizionato sempre, quando non c’erano si parlava dei debiti come di grandi mostri, poi quando iniziarono ad essercene un po’ bisognava fare qualcosa, poi arrivata l’età della pensione, quando potevano rilassarsi un po’, hanno rincominciare da capo a fare lavori e sacrifici per un altro pezzettino di terra.
Che catene, me le volevate passare, forse inconsciamente, ci avete provato per tutta la vita senza vedere che fatica, che peso erano per me quelle catene che non mi lasciavano iniziare una volta per tutte il mio cammino …!!
Cara mamma, caro papà, abbiamo avuto un dono grande dal Signore, il tempo di riconciliarci. Finalmente ho potuto farti io da mamma, accompagnarti nei momenti più difficili nella tua senilità, ho potuto baciarti, coccolarti e proteggerti, per quello che era necessario. Ho pensato tanto a te, non più con rancore, o con forte senso di colpa, ma con un sentimento di comprensione. Eri stata abbandonata in tenera età come potevi offrire sicurezza e fiducia a me e mio fratello? Andavi anche tu a tentoni appoggiandoti solo sulle tue forze in un tempo difficile come quello del dopo guerra. Hai scelto di avere la tua famiglia, ti sei voluta staccare dalla famiglia del papà e questo aveva certamente un aspetto positivo, bello, purtroppo però eri sola, sola ad affrontare le gravidanze, l’accudimento di noi, il tuo rapporto col papà. Ora sappiamo, e l’hai capito bene anche tu, che molto della nostra vita si è giocata da quelle prime nostre relazione. La mia rabbia di bambina che desiderava solo il tuo amore, che tu non sapevi darmi, quella rabbia che si è trasformata nell’adolescenza in una personalità borderline e tutto quello che ha conseguito. Dunque nessuna meraviglia se ancora la mente ha fatto i capricci quando gli ormoni si sono di nuovo mossi nel periodo della menopausa e la depressione che si è conclamata in un certo momento.
Ricontattai la mia associazione e mi fu consigliato di fare un cammino psicologico. Accettai. L’incontro con la psicologa non era per me cosa nuova in quanto avevo fatto cinque anni di accompagnamento psicologico durante la scuola di formatore in scienze umane e quindi sapevo più o meno di cosa si trattava. Era un dejà vù, mentre ero lì avvertivo che poteva essere più facile vivere, ma dentro di mè continuava a governare la sofferenza. Pregavo, ma sentivo che le mie preghiere erano anche loro così mogie che anche il Signore non le gradiva più tanto, questa cosa me la diceva mia madre, quando io incalzavo perché lei pregasse, è una tentazione in cui per fortuna non caddi.
Andai a vivere con una persona dell’associazione a Forlì, avrei avuto la possibilità di impegnarmi di nuovo in qualche accoglienza, di rimettere su casa, di fare lavoretti. Ma il silenzio del sentire regnava in me. Andavamo alla Messa tutti i giorni e quell’ora mattutina era il significato di tutta la giornata, avevo ancora la macchina e ogni tanto guidavo, per andare a trovare mio padre e mia madre. La mia città natale era ancora più grigia. Continuava un penoso tran-tran, un giorno era così pesante il malessere che andai da sola alla guardia medica della psichiatria dove mi fecero una flebo. E mentre ero sul lettino mi chiedevo se ci credevo davvero che una flebo mi potesse togliere la tristezza.
In seguito ci fu un secondo ricovero sempre nella stessa clinica dove ero stata. Una domenica pomeriggio scesi per fare un giretto in giardino. Avevo un maglione rosso bordò, fatto a mano, regalatomi da un’amica, ero seduta su un muretto quando vidi arrivare mio fratello. Mi era venuto a trovare! Non era mai successo, da tanti, tanti anni…. mi chiedeva come andava, m diceva come era bello quel posto in mezzo al verde e senza tante altre cose passammo bene un po’ di tempo insieme. Quella casa di cura era l’unica protezione che avvertivo come fatto reale. Non so se riesco a dirlo, ma quasi tutto ciò che mi coinvolgeva, sentivo non appartenermi, all’infuori di quel luogo. Questo medico, così grande e così semplice, che dava la sua vita per stare in mezzo a noi malati, l’ambiente che aveva creato era austero e familiare, il personale era professionale, ma attento ai tuoi bisogni anche più piccoli, si rivolgeva a te con rispetto. Ascoltavo il cinguettio degli uccelli, aspettavo il momento per andare alla messa e ricevere l’ eucarestia. Forse riuscivo di nuovo a sorridere.
Le mie ragazze erano lontano, cioè vicine, ma ci sentivamo poco, sapevo però che erano in luoghi protetti, non sempre la pensavo così, a volte mi immaginavo che potevano essere poco curate, poco capite interiormente e che soffrissero anche loro. Ancora pazienza, ancora silenzio e offerta al mattino al Signore, nell’Eucarestia, qualcosa sarebbe successo. Ed è vero, succedeva, uno spiraglio di luce, giusto per non morire, per ricordarmi di Lui, del mio Dio, del mio Signore. Cercavo tra i libri dei santi che avevano passato lunghi periodi di oscurità, di che cosa si trattasse, se un versante spirituale, il cammino di purificazione, che comunque prevede questa notte oscura dove la persona va a tentoni, ma non si dimentica mai del suo Dio, oppure se era solo patologia psicofisica? Uscì un libro di madre Teresa che parlava di questa sua lunga assenza di consolazione, forse di un periodo di depressione? Nulla cambiava comunque, l’identificare quella sofferenza a questo o quello di fatto c’era e rendeva la preghiera arida, rendeva l’aurora senza rosa, senza violetto, il tramonto senza rossore, la pioggia senza ticchettii, l’acqua senza rumore. Così era, perciò non restava che l’attesa. La speranza di qualcosa che si è conosciuto, che era stato, che non poteva essere morto.
Mi proposero di andare in Liguria in una casa di preghiera. E qui si consumò la mia ennesima sconfitta sul campo. I responsabili erano giovani atletici e come prima cosa, senza lasciarmi il tempo di riprendermi dal fatto di trovarmi in un posto nuovo, mi indicarono di andare in piscina tutti i giorni. Non capivano nel modo più assoluto cosa stavo provando. Avevo bisogno di relazioni vere di qualcuno che guardandoti negli occhi, non si fermi sulla porta, come diceva Edith Stein, ma entri nell’interiorità. Usavano parole dure nei miei confronti, anziché gentilezza e comprensione. Ogni parola forte era una lama che mi colpiva, ogni richiamo andava ad infrangere quella pochissima stima di me che mi restava.
Un giorno me ne andai.
Mi sentivo trasandata, vecchia. Non riaffiorava più in me quel bellissimo desiderio di essere me stessa, di sentire, di gioire, di odorare quello che mi circondava ed anche il mio corpo. L’ansia e la rabbia si impadronivano di me senza che potessi far niente. Mi stavo comportando come un’adolescente capricciosa. Sì, era così. E dunque? Cosa altro c’era da fare? Allora il mio piccolo cuoricino non poteva tenere tutto questo dentro di sé e guardando nell’agendina telefonica trovò un nome, un numero che diventò da quel momento l’ancora a cui aggrapparmi. Una persona dell’associazione piena di impegni che mai avrei pensato mi potesse rispondere per parlare di..’niente’ invece era fedelissima ogni giorno rispondeva con una voce argentina, mi diceva “pronto”, ed io parlavo. Era la sola persona che mi prendeva sul serio, era il tramite di speranza, era un filo di luce, una presenza materna e fraterna. Incominciò così che ogni giorno aspettavo quell’ora per poter parlare con ei. E lei c’era, fra le cose che desideravo quella era la sola che esisteva. “Ma chi le dava la forza di star lì a sentirmi, a sentir ripetere sempre le stesse cose, sto male, non ce la faccio più…. lei trovava un piccolo aggancio per farmi sentire che ancora esistevo, che avrei potuto disporre ancora di me stessa. Non so se ci si può render conto di cosa voglia dire, in quei momenti in cui tutto è ormai fallimentare, sentire qualcuno che ti dice, “.. guarda che è possibile”.
Tornai a casa da mio padre. Nel pomeriggio andavo a trovare una signora anziana. Lei mi chiedeva come stavo ed io rispondevo male. Anche lei era piena di mali fisici e per questo mi capiva, mi faceva stare comoda su una poltrona davanti alla televisione. La mattina andavo a Messa in una chiesa dove conobbi persone del Rinnovamento dello Spirito. C’è accoglienza in questi gruppi, basta che tu vada una volta e loro ti invitano a partecipare ai loro incontri, le preghiere erano forti e si sprigionava in esse il desiderio di guarigione. C’era chi testimoniava la sua guarigione, chi la chiedeva per altri e così via, dissi loro che avevo la depressione e questo non li stupì affatto in quanto diverse persone in questo stato facevano parte del gruppo, in un certo senso mi ci ero ritrovata, forse non per “caso”. Sapevo che non era quella la mia spiritualità, che era ciò che mi si presentava per relazionarmi con qualcuno. A volte mi venivano a prendere e si andava ad un incontro di preghiera, loro pregavano tanto, con fervore e sono sicura anche per me, erano momenti belli anche per me, ma sostanzialmente non poteva riempire la mia vita. Il pomeriggio andavo a trovare la mamma, il papà conosceva tante persone perché andava tutti i giorni e così riconoscevano anche me e mi salutavano affettuosamente. le Mi fermavo con loro insieme alla mamma in carrozzina e si scambiavano due parole, all’inizio era piacevole, ci portavano il tè, si stava in compagnia, poi riprendevo la strada, un giretto e ritornavo a casa, ma non poteva saziarmi. La cena era frugale, il papà guardava alla televisione la sua trasmissione preferita, si entusiasmava al punto che anch’io cercavo di partecipare. La sera a letto presto, poi la mattina a messa e dopo dalla mamma. Lei era contenta di vedermi, ma se mi fermavo a lungo, mi diceva di andare, non parlava, ma me lo faceva intendere.. Andò avanti così per qualche mese, poi incominciai a sentire che mi stava tornando l’ansia. Andai dal medico di base, una dottoressa molto gentile che mi invitò ad andare al Centro di Salute Mentale dove una dottoressa frettolosa e apparentemente non attenta mi ricevette. Poche parole, la cura, le medicine, sarei tornata dopo un mese. Un amico della parrocchia della casa di mi padre, mi aveva invitato a fare volontariato presso una scuola elementare, sul furgoncino che portava i bambini. Accettai e quei visetti, ricordo che mi davano gioia, senso di realtà. Se esistono ancora i bimbi, mi dicevo, se riescono loro ad affrontare le difficoltà della vita, ci devo riuscire anch’io. C’era un sacerdote in carrozzella con la sclerosi multipla, mi sorrideva e mi ringraziava per quello che facevo. Era Natale, eppure io non sentivo più né piacere, né sentimento. Si andava a letto presto e ci si alzava quando volevamo. Sembrava una situazione ottimale per vivere la depressione, ma in verità era la sua tomba.
Me ne accorsi dopo un po’ di tempo quando non riuscii più ad alzarmi. Tornai dal medico e poi ai servizi e qui mi offrirono la possibilità di fare un part-time presso il centro. La dottoressa che mi ricevette mi sembrò subito un po’ scorbutica, poche parole, mi invitò a presentarmi in una struttura residenziale e mi prescrisse le medicine da prendere là. Mi preparai, la sera per essere pronta la mattina, con scarpe da neve, piumino e i soldi spicci per il biglietto dell’autobus. Mio padre seguiva i miei movimenti, con attenzione. Arrivai a questo centro, che era una vecchia scuola elementare, ristrutturata, fuori il giardino era coperto di neve. Provavo una strana sensazione, come se davvero tornassi ad andare a scuola nei giorni dell’infanzia. Arrivai alla porta che era già aperta e mi indicarono una sala di attesa, c’erano già alcune persone, chi seduto con la testa sul tavolo, chi girava avanti e indietro fumando una sigaretta, cercai di entrare nella porta dov’era l’ufficio, l’accoglienza, per trovare rifugio, ma mi dissero di starmene fuori che poi avrebbero chiamato loro. Vedevo che anche altri cercavano quella porta, quelle persone, gli operatori, gli infermieri, i medici. C’era una grande sala dove si facevano lavori di pittura e manualità, era una bella stanza, uno o due ragazzi stavano con la sedia vicino al termosifone e con la testa sopra, pian piano incominciarono ad arrivare altri. La maggioranza fumava ed era appena tornata dal bar dove aveva preso un caffè doppio. Cercai di mantenermi calma, di lì a poco avremmo preso la terapia. Eravamo in fila, col bicchiere dell’acqua pronto, sembravamo dei bravi soldatini che andavano a prendere la propria razione di cibo. Come seconda postazione si andava in una saletta attigua con la televisione già accesa e lì si aspettavano gli operatori per iniziare le attività. Solo che pensassi un attimo mi rendevo conto da che parte ora stavo, tra gli emarginati, tra gli schizofrenici, ma questa volta non come operatrice ma come paziente, non è una cosa facile da digerire. Per distrarmi mi guardavo attorno, quasi tutte le persone presenti fumavano alacremente, qualcuno mi rivolse la parola: “Sei arrivata oggi, come ti chiami?” Risposi ma ero troppo ansiosa, il tempo non sarebbe passato, cosa avrei potuto fare? Tornare nell’ufficio e chiedere cosa, dire cosa? Una giovane donna fra le infermiere si accorse di me, del mio disagio e mi chiese da dove venivo, era molto gentile, attenta, il suo viso divenne per me da quel momento un punto di riferimento e quando incontravo il suo sguardo potevo sorridere. Arrivò il maestro di disegno, non sapevo come pormi, poi venne da sé che incominciai a colorare un disegno fotocopiato che mi avevano dato. C’era una ragazza giovane, straniera, che lavorava su un grande collage, era un lavoro bellissimo, ma guarda, mi dicevo che cosa riesce a fare, che armonia di colori, che belle forme, è un’opera d’arte ! Non tutti erano occupati, alcuni continuavano a ciondolarsi in su’ e in giù col viso un po’ cupo. Arrivò l’ora del pranzo a cui partecipavo anch’io, il cibo nei contenitori plastificati, brodino, pasta in bianco, purè, fettine di arrosto, non davo tanto peso al cibo, da tempo ingozzavo quello che mi capitava, era così lontano il tempo in cui potevo andare a fare la spesa, scegliere di giorno in giorno cosa preparare, questo è uno dei compiti naturali della donna e quando non si fanno, manca qualcosa. il gusto era quello standardizzato delle cose precotte, non era il sapore vero delle cose. Mangiavamo, sparecchiavamo e poi di nuovo davanti alla tivù. Alle due uscivamo, noi del diurno e ci apprestavamo ad andare alla fermata dell’autobus per prendere ciascuno il suo. Quando arrivavo a casa il papà stava facendo il suo sonnellino per andare poi a trovare la mamma. Ci alternavamo, a volte andava lui, altre io. Nella stanza della mamma c’erano altre due signore una aveva cent’anni, le loro figlie erano carine, mi salutavano sempre cordialmente, erano presenti tutti i giorni, piene di attenzione per i loro cari, restavano ore su ore, pur sacrificando tempo per altre faccende che dovevano comunque fare, provavo una sorte di ammirazione per loro. Le volte in cui non andavo da mia madre, facevo visita a una signora vicina di casa, era lei piena di mali e spesso le prime cose che mi diceva riguardavano la sua difficoltà ad andare di corpo. Ero diventata sua amica, anche perché ero una delle poche persone a cui aveva confidato di sentire le voci. ‘Ma vai dalla psichiatra, fai una cura’ le dicevo e lei ribatteva: “Sì, per stare come stai tu, non vedi come ti hanno ridotto le medicine?” Era vero, non stavo migliorando, parlavo molto poco, allora mi sforzai al centro di comunicare un po’ di più con le operatrici e trovavo un po’ di sollievo. Incominciai a evidenziare il mio malessere in vari modi, ma uno, fra tutti era quello che, seppi poi in seguito, lasciava sconcertate certe persone, quali i parenti delle pazienti della casa di riposo con cui parlavo un po’: dicevo che volevo morire. Era pieno inverno, venne a nevicare così forte che dovettero chiudere le scuole e così anche la nostra struttura. Rimasi in casa col papà, dopo un giorno e mezzo che restavamo per lo più a letto o camminavamo dalla stanza alla cucina, mi sentii con un amico dell’associazione il quale disse che mi sarebbe venuto a trovare. Era già stato una volta e al papà non piaceva perché era alto e grosso, una figura di per sé imponente, poi non lo conosceva e non si fidava del solo fatto che facesse parte della nostra associazione. Non ricordo bene cosa successe, ma incominciammo, io e il papà a scontrarci verbalmente, eravamo tutti e due molto carichi emotivamente e bastò poco perché ci trovassimo l’uno di fronte all’altro in atteggiamento aggressivo di sfida, eravamo a un passo dall’allungare uno schiaffo o un pugno. Qualcosa o qualcuno mi fermò, abbassai lo sguardo e mi distolsi. Il papà apprezzò molto che ero stata io la prima a cedere, da parte mia ripensandoci provai vergogna e mi dissi fra me e me: “Ma come sono messa, mi metto contro una persona oltre novantenne, oltretutto mio padre ?” Quello, però, fu un momento di presa di realtà, era il risultato della chiusura totale a stimoli positivi, io che ero abituata alla musica, alla lettura, a partecipare ad incontri culturali, mi ero azzerata. Quell’avvenimento mi diceva: “Eh tu vorresti aiutare i tuoi, non vedi che cosa succede? Non puoi dare ciò che tu non hai, da chi prendi energia, da che cosa, non c’è nessuno qui che può ossigenarti…” Era inverno, c’era un gran freddo, nonostante ciò trovavo la forza di uscire la mattina presto per andare a messa finchè non mi ammalai. Forse non mi ero coperta bene, mi venne una forte bronchite. Grace veniva qualche giorno la settimana per fare i lavaggi per la stomia del papà, pulire la casa e preparare un po’ di cibo. Era molto gentile con me, si ricordava quando stavo bene quello che avevo fatto per lei, ogni volta che venivo dalla Sicilia le portavo regali che trovavo presso l’associazione, scarpe nuove, vestiti, mi aveva visto in piena energia ed ora era dispiaciuta, ma non mi umiliava aveva sempre un atteggiamento rispettoso nei miei confronti. Ero per lo più a letto da qualche giorno quando mi telefonò la segretaria della psichiatra per sapere perché non stavo andando al centro. Le risposi che stavo male, lei mi disse che comunque la dottoressa voleva vedermi, non sapevo che dire, la salutai e tornai sotto le coperte. Verso mezzogiorno il papà era uscito per comperare latte e pane, la spesa più grossa la faceva con mio fratello, quando rientrò mi disse: “Qualcuno è venuto a spalarci la neve”. In quel momento, quella gentilezza mi sembrò una cosa così bella che mi diede la forza per alzarmi. Un vicino della parrocchia, si era prestato in questi anni ad aiutare il papà quando c’erano stati momenti di difficoltà, era una persona speciale che sentiva nell’aria quando le cose non andavano. Quel giorno stesso venne a casa anche l’infermiera del servizio sociale e quel piccolo via e vai mi sembrava una gran cosa nel silenzio tombale in cui riversavamo, era un piccolo risveglio. L’infermiera mi disse di andare subito dal medico, curami velocemente e poi di andare dalla dottoressa del centro che mi aspettava. Così feci. L’isolamento non è umano, la persona è fatta per essere in relazione con gli altri e pur sapendolo benissimo, ora lo stavo sperimentando col mio corpo, con le mie emozioni.
La psichiatra del centro mi disse che avrei dovuto fare un ricovero residenziale. Accettai chiedendo come condizione quella di poter uscire la mattina per andare a Messa. La chiesa non era lontana, mi imbacuccavo, me ne andavo e me ne ritornavo. Incrociai alcune volte il maestro di disegno per la strada, mi salutava con rispetto e per quei pochi momenti mi sembrava di essere tornata ‘normale’. Incominciai a frequentare i corsi che c’erano, il disegno, lo scrivere poesie, la musica, i movimenti del corpo, condividevo la stanza con una ragazza anche lei appena arrivata, era gentile, carina, quando mi disse che l’avevano salvata da un tentato suicidio non riuscivo a crederlo. Tenevo una radiolina sul comodino e la sera mi sintonizzavo su radio Maria per sentire i rosario. Il volume era basso, ma lei mi confidò che aspettava quel momento perché sentire la recita dell’Ave Maria le dava molta pace. I ragazzi sapevano che io alla mattina andavo a Messa e mi rispettavano per questo, anzi cercavano di dirmi, da parte loro, che avevano una medaglietta di Lourdes, o dei santini, o delle croci, incominciai a sciogliermi e a parlare con loro, li salutavo con un sorriso e loro me ne erano grati. L’ora del disegno era quella che più aspettavo perché il maestro era davvero una persona speciale, sapeva creare un’atmosfera così piacevole che mi dimenticavo di essere in un centro di recupero, nella pausa iniziammo a parlare un po’ e mi sembrava che lui capisse che ero stata una persona con una vita piena. Inoltre c’è da dire che veramente il disegno aiutava a rilassarsi, mi lasciavo prendere dalle forme che si creavano, dai colori e la mente si fermava un po.’ C’era chi faceva una battuta che il maestro prontamente accoglieva e a cui rispondeva, si avvicinava a ciascuno di noi e il suo sorriso voleva dire “stai proprio facendo bene”, solo quell’accenno mi faceva stare bene. Quando finivano quelle ore c’era una certa soddisfazione, sentivi di aver fatto qualcosa o meglio che c’ era stato qualcosa. Le giornate, erano lunghe, sì ed era facile ributtarsi sul letto, rientrare nei tuoi pensieri e lasciarti da loro prendere, però qualcosa stava succedendo. Mi accorsi che riuscivo a riprendermi quando incominciai a interessarmi a qualcuna delle persone presenti ad entravo in dialogo con lei. Ascoltavo la sua storia fatta di piccoli e grandi drammi. C’era una ragazzina marocchina, che cercava lavoro, ma non riuscendo a trovarlo si era buttata così giù da prendere una buona manciata di pastiglie per dire addio a questo mondo. Ora questa ragazza mi veniva a cercare nella stanza e si metteva sdraiata vicino al mio letto, stavamo così un po’, poi scendevamo nella stanza della televisione. Ogni tanto si sentivano grida, qualcuno andava fuori di testa, non si controllava più e le infermiere dovevano tenerlo. Il personale che ci assisteva era composto da ragazze buone, comprensive, mi sentivo voluta bene, quando si accorsero che mi interessavo degli altri pazienti mi dimostrarono riconoscenza ed io ne ero contenta. Era l’ora del disegno, il maestro colse l’occasione per chiedermi, molto discretamente di dov’ero. Risposi senza imbarazzo, dissi la mia età, la mia confessione, cosa che lui aveva già capito perché i ragazzi accennando di me avevano evidenziato quella parte, che cioè andavo in chiesa tutti i giorni e che pregavo. Sembrava colpito da queste cose ma non si ritrasse dal dirmi che lui non avrebbe mai potuto pregare o andare in chiesa. Già i ragazzi dicevano di lui che era di sinistra, anzi, oltre. Fu l’occasione per la volta successiva di riaprire il discorso. “Io ci ho provato, mi disse a leggere la Bibbia, ma quando mi trovavo di fronte a schiere di persone che si ammazzavano, non potevo credere in un Dio che portava avanti le cose così.” Rimasi un po’ senza parole poi aggiunsi: “Io non so molte cose, ma credo, Credo in Dio” e ci lasciavamo così, nel rispetto delle nostre scelte. Un altro giorno mi disse “Il mio grande maestro è stato Marx”. Nonostante questa grande divergenza mi sentivo bene a parlare con lui, mi suscitava interesse e sentivo che anche per lui era la stessa cosa. Ritornavo in camera e anziché buttarmi sul letto mi sedevo e seriamente mi dicevo: ‘Ma tu che cosa vuoi fare? Lo sai sì o no? Ancora mi disperai, col mio Signore, poi mi tornò il pensiero, “Ma tu che cosa vuoi fare?” E mi risposi come se fossi libera di dire veramente ciò che volevo: “Vorrei andare in missione, magari in Birmania dove c’è la Francesca” Era una cosa grande del tipo impossibile da realizzare. Ci dormii sopra per qualche giorno. C’era un’altra voce che continuava a tormentarmi: “Ma che cos’è che vuoi fare? Non ti rendi conto di come sei messa? Che non riesci neanche ad organizzarti per un’uscita in città?” Era vero anche questo, ed allora?
Prova a sentire, mi confermai fra me e me, non ti costa nulla.
Il pensiero della missione era stato suscitato anche dal fatto che là si è completamente tra i poveri e loro, proprio come era avvenuto nel centro, sono i soli che ti accettano così come sei, ti accolgono con gioia senza interessarsi di quanto ti era successo, senza etichettarti, lasciandoti nella libertà di vivere il tuo quotidiano come anche loro lo vivevano.
Telefonai alla persona responsabile della missione: “Gli dissi dov’ero e cosa era successo, poi le espressi il mio desiderio di andare in Birmania.” “Si può fare, mi disse, ora sento dagli altri e poi ti faccio sapere”. Da quel momento sentii che si poteva ribaltare tutta la mia situazione e incominciai a crederci. Mi svegliavo in un modo diverso, c’era qualcosa che aspettava da me di essere fatto. Mi chiamarono per fare un colloquio con uno psichiatra e una giovane psicologa che facevano uno stage, fra le varie domande ci fu quella di chiedermi cosa stavo progettando ed io dissi loro che aspettavo una risposta per andare in missione. Mi immaginavo che questi mi dicessero “ma cosa dice”? Invece, loro mi risposero con un sorriso affermativo aggiungendo, “He… bene”. Parlai allora con la mia psichiatra e lei fu più indagatrice: “E suo padre, non si può mica fare phuuf e lui sparisce! Poi c’è di mezzo il viaggio, come fa a fare un viaggio così lungo, cambiare aereo, da sola?”
Quello che successe da quel momento fu qualcosa di straordinario, le cose si aprivano e risolvevano da sole. Il responsabile dell’associazione riconfermò che andava bene che avrebbe contattato lui la psichiatra che rassicurarla su ogni aspetto, parlai con mio padre e a mio fratello mi dissero che per loro andava bene, anzi erano contenti. Mi fecero sapere che rientrava proprio la sorella della missione per cui sarei potuta ripartire insieme ed anche il problema del viaggio si risolveva.
Un altro responsabile dell’associazione si fece carico di farmi regolarmente avere le medicine.
Questa volta io non avevo fatto nulla avevo semplicemente creduto che sarebbe stato possibile, fatto il mio passettino e aspettato che gli altri si facessero carico del resto.
Mentre mettevo a posto alcune cose a casa di mio padre ritrovai degli appunti che avevo preso, fra questi lo scritto di un bravo pedagogista che avevo seguito per anni radiofonicamente, così diceva:
“Caro falso sé, dopo tanto tempo che tu guidi la mia esistenza, ho trovato il coraggio di scriverti a cuore aperto. E non pretendo che tu mi comprenda, credo che tu non ne sii capace. Sono certo che tu abbia la capacità di conoscermi meglio di chiunque altro perché sei venuto ad occupare il mio posto in tenera età, quando non ero ancora in grado di difendermi e di farmi rispettare come avrei dovuto fare. Ora che sono cresciuto sotto la tua gigantesca ombra avverto il desiderio di informarti che è giunto il momento che tu te ne vada perché tu stai vivendo la mia vita e questo non è giusto. Lei appartiene alla sorgente della verità da cui nasce il profumo della vera libertà. In questo momento avverto il desiderio di incontrare qualcuno che mi aiuti a trovare il giusto orientamento e a rispondere a queste impellenti domande: chi sono veramente? Sto utilizzando tutte le mie potenzialità? Qual è lo scopo della mia vita? Desidero incontrare qualcuno che sappia mettere ordine nel mio disordine, che mi trasmetta la forza di dispiegare le ali del coraggio al vento del futuro. Qualcuno che possa sciogliere il ghiaccio della solitudine che si è accumulato negli strati dell’anima fin da quando, nell’infanzia, ho sentito l’incapacità da parte dei miei genitori di essere raggiunto nella parte più intima del mio sentire. Ho bisogno di qualcuno che mi accolga, che non si limiti al giudizio superficiale, ma che sia capace di riconoscere il reale significato. Ho voglia di sentire i profumi che mi circondano, di respirarli fino in fondo. Ho bisogno di iniziare a togliermi quelle scarpe troppo strette che hanno derubato ai miei piedi il piacere del contatto con la terra, l’acqua fresca, i fili d’erba o la sabbia bagnata dalle carezze del mare. Ho bisogno di urlare tutta la rabbia che ho dentro di me; ho bisogno di buttare fuori tutta la disperazione che si è accumulata nei giorni bambini delle solitarie e invisibili ore scure, ho bisogno di veramente dire quello che sento in questo momento. Avverto il desiderio di essere ruscello che scorre, neve che si scioglie, amo sentirmi mosso come il mare con il vento che l’abbraccia ogni istante e a ogni soffio lo rende un mare nuovo. E’ da troppo tempo che mi sento sbagliato, inutile, compagno dei miei giochi solitari a nascondermi dagli altri come se fossi un rifugiato che si eclissa in qualche flatto artificiale. Sono trafitto da paure e porto sulle spalle un sacco che è colmo di vergogne perché sento di pesare enormemente con il carico di un fardello di maschere e abiti finti. Ciò nonostante, caro falso sé, desidero con ogni fibra del mio essere attuare un vero cambiamento. Oggi per la prima volta sento nelle viscere dell’anima che posso essere fedele a me stesso e liberarmi dalla tua ingombrante e soffocante presenza. So anche che, per certi versi, mi hai protetto, mi hai messo nelle condizioni di arrivare fino a qui integro, sano e salvo con la mia ritrovata voglia di camminare a piedi nudi e ad assaggiare i sapori del mondo con le mie papille gustative. Permettimi dunque di ringraziarti per tutto quello che mi hai insegnato e sappi che non mi dimenticherò mai di te, se lo facessi correrei il rischio di ritrovarti a dormire nel mio letto e un’altra volta a vivere la mia vita. Se posso darti un consiglio và a Venezia quando c’è il carnevale, lì potrai esibirti insieme a tanti altri falsi sé. Con la massima autenticità possibile e senza rancore, il tuo vero sé.”
Parlando della mistificazione spiegava: La mistificazione è una ragnatela in cui si può rimanere impigliati per tutta la vita, ma da cui ci si può liberare in qualsiasi momento si voglia fare, basta prenderne coscienza. Non si diventa mistificati in una notte, in una settimana, o in un mese. Se un genitore non sa riconoscere il bisogno del figlio in una determinata circostanza, ad esempio nella richiesta di sostegno morale, di vicinanza affettiva, il figlio non diventa improvvisamente mistificato, ma se lo stesso genitore ogni giorno, ogni giorno, non sa entrare in empatia con il mondo interiore del figlio, ecco che lo sta avviando verso la mistificazione. E dobbiamo anche dire che se un genitore è incapace di legittimare il mondo intrapsichico dei propri figli, il più delle volte è una persona che è stata a sua volta invalidata, mistificata, dunque fortemente bloccata.
A questo aggiungerei anche un ingrediente speciale: l’amore. L’amore di Dio, dei fratelli e dei poveri. Dio è amore e noi siamo fatti a sua immagine. Un amore incondizionato che mi dice: “Ti amo come sei!” Non c’è più una condizione morale che mi dice che devo essere approvato nei miei comportamenti se voglio essere amata, no, sono io che mi oriento liberamente in una direzione positiva ed è qui si innesta il processo del cambiamento.
Avevo tirato fuori la bicicletta e provavo un gran gusto nel pedalare e sentire l’aria sul viso. Andai a trovare la signora mia amica che mi disse: “Ma cosa è successo, questo è un miracolo, tu sei cambiata!” “Sì, le risposi, sono state le tue preghiere!” Anche mio padre, senza dir nulla si accorse che ero cambiata e vedevo quanto ne era contento.
Mi sentivo bene con me stessa e con gli altri, la natura sembrava rifiorire. Come fosse successo anch’io non lo so, realizzavo solo che ora non rifiutavo più il mio vissuto, non ci pensavo neanche. Sicuramente l’avevo accolto e quei desideri di uscire dalla mia inferiorità si erano realizzati ed ora potevo riprogettare. Desideravo soprattutto essere fedele a me stessa, a quello per cui Dio mi aveva creata.
Sentivo cambiato il mio corpo. Non me lo trascinavo più dietro, ora era lui che si muoveva, che bella sensazione sentire il mio corpo leggero! Ma non solo, desideravo prendermene cura, lavarmi, e cercai una spugna morbida e un bagno schiuma profumato, l’acqua che scivolava sul corpo, non mi era più nemica, era diventata una cosa piacevole. Tutti si accorsero del mio cambiamento ripetevano che era stato un miracolo, anch’io ero certa che il Signore non era estraneo a quanto era successo. Non poteva esserlo, perché era sempre stato presente, come il sole che si mantiene dietro le nuvole, ma che c’è. Poi, quando Lui ha voluto ha mandato un fascio di luce speciale su di me. Da parte mia, mi ero messa nella condizione di accogliere quanto veniva, la sofferenza mi aveva spogliato completamente fino a raggiungere la mia parte più profonda, quel punto sacro che è la nostra essenza. Momento meraviglioso.
Si chiama anche libertà interiore. Come riuscire a raggiungerla? E’ un processo lento e faticoso, come avete visto dal mio racconto, incominciato col trovare dentro di me la forza per vincere la dipendenza dagli altri, le forme di rigidità, la tirannia di alcuni sentimenti e pian piano, respiro dopo respiro, aprendomi alla vita ed abbandonandomi a Dio ho sentito quella presenza viva che è dentro di noi.
Inoltre i cambiamenti avvengono attraverso gli altri, come faccio a vedere la mia luce, se non è un altro che me la fa vedere? Le relazioni sono cose misteriosamente belle. Non è così frequente avere degli incontri significativi, anche noi dobbiamo procurarceli, uscire da noi stessi e fidarci di Dio che è un padre che ci ama e non ci lascia a lungo soli, presto ci invia un angelo. Gesù stesso lo chiese nel Getsemani e il Padre glielo inviò. Il Signore guarisce tutte le nostre ferite, ci tiene accanto a sé fino a farci sentire quella voce che dice: “I prati sono in fiore, chi canta è il mio cuore, amore, amore, amore no so più cosa dire ma tu mi capirai…”
Miei piccoli e grandi amici, a chi, leggerà queste righe, voglio dire grazie, perché se non ci foste stati voi che aspettavate di leggerle io non avrei avuto il motivo di scriverle. Ma è così bello potervi dire: “E’ possibile vincere il nostro senso di inferiorità, il fatto di non sentirsi accettati dagli altri, anche per voi arriverà una vocina che dice: ‘ vai bene così, ti amo così come sei, non ti preoccupare, sei nel mio cuore.’ Questa voce benedice la nostra vita ora e così sarà ogni giorno che sorrideremo alla vita e ci apriremo al suo ascolto.
Quando la valigia, preparata tante volte nella mia vita, fu pronta, mi accorsi della grande differenza con cui gli eventi si svolgevano. Innanzitutto le persone che incontravo si congratularono con me per questa bella opportunità di andare in missione, ed io ero felice, rassicurata dalla presenza della missionaria che era con me. Il viaggio in aereo andò benone e arrivammo in Birmania. L’accoglienza della gente del villaggio fu grande, i bambini in particolare donavano una gran gioia. Ero proprio io ad essere lì quando solo due mesi prima ero ricoverata senza alcuna idea di dove mi sarei trovata dopo? Eppure furono proprio quei giorni, quella sofferenza, ad agguerrirmi per essere ancora più me stessa e lasciar andare il passato.
C’era tanto caldo, tanta umidità e quasi subito dovetti fare i conti con alcuni malesseri fisici che poi passavano; non più giovane, non più forte, con una buona dose di farmaci giornalieri mi apprestai a quest’avventura; la mia amica diceva che ero brava, che ce la stavo mettendo tutta e per questo ce l’avrei fatta. Così passò un anno, fino a quando mi preparai per rientrare in Italia.
Qui la gioia fu veramente grande, traboccante. Avrei rivisto Giulia, mia madre, mio padre, mio fratello, tutti i miei amici. Mi svegliavo con la voglia di cantare dalla gioia che provavo.
Sono passati cinque anni, da pochi mesi ho lasciato completamente la cura che avevo gradualmente scalato. Vivo da sola in un bellissimo paesino fra le colline marchigiane, scrivo, faccio catechismo e presto verrà a vivere con me un’altra persona, vedo regolarmente Giulia e qualche volta Letizia con le quali passeremo sicuramente, fra non molto, un po’ di tempo insieme.