Presentazione
La ricerca di cui riportiamo i risultati si è sviluppata negli anni scolastici 2008/2009 – 2009/2010, all’interno del progetto “Il disagio giovanile e i disturbi d’ansia” proposto dalla Associazione per la Ricerca sulla Depressione agli Istituti Superiori della città di Torino.
Tale progetto è consistito nello svolgimento di un incontro con gli allievi delle classi quinte dei quattordici Istituti che hanno aderito alla nostra iniziativa, durante il quale abbiamo parlato del Disagio Giovanile e di una delle sue possibili manifestazioni, cioè il Disturbo da Attacchi di Panico. Durante l’incontro con i ragazzi, prima dei nostri interventi, abbiamo somministrato ai partecipanti un questionario dal titolo “I Disturbi Depressivi e i Disturbi d’Ansia” al fine di sondare il livello di conoscenza degli studenti sui temi della depressione e dell’ansia.
I questionari sono quindi stati compilati in nostra presenza durante gli incontri e il campione è risultato di 1308 allievi, con età media di 18,3 anni, suddivisi in 500 (38%) maschi e 752 (58%) femmine (56 non hanno segnalato il sesso).
La decisione di parlare di depressione e ansia nasce dall’ampia diffusione sociale di questi fenomeni, tipicamente durante i periodi di vita in cui si verificano profondi cambiamenti e riadattamenti a diversi livelli: affettivo, sociale, scolastico o lavorativo. L’età giovanile, che appunto costituisce una delicata fase di transizione da condizioni di maggior dipendenza ad altre di autonomia e responsabilità, può accompagnarsi a irritabilità, tensioni, pessimismo, senso d’incapacità, labilità emotiva, tendenza ad oscillazioni del tono dell’umore. Spesso questi aspetti si risolvono spontaneamente, altre volte invece assumono i caratteri di veri e propri disturbi clinicamente diagnosticabili.
I giovani da noi incontrati, studenti dell’ultimo anno di Istituti di Scuola Superiore, sono prossimi ad affrontare scelte di tipo formativo e lavorativo importanti per il loro futuro. Scelte che si accompagneranno a una progressiva ridefinizione dei rapporti con la famiglia d’origine e a nuove aperture sul piano sociale e affettivo. Il tutto in una congiuntura epocale non più contraddistinta, come quattro-cinque decenni addietro, da norme rigide e largamente condivise, ma caratterizzata da
fluidità, instabilità e cambiamenti repentini che, per quanto generino il moltiplicarsi delle opportunità, possono al contempo creare difficoltà di progettazione e insicurezza.
Nonostante questa complessità, potremmo anzi dire proprio per il sussistere della suddetta complessità, è importante non cedere a facili generalizzazioni nel descrivere i giovani, indistintamente, come disinteressati, noncuranti, senza valori e senza progetti. Conclusioni di tal genere, spesso indotte da episodi singoli e circostanziati, rischierebbero di sottostimare la forza vitale e i principi che i giovani possono esprimere.
Terminate le premesse, passiamo ora a una descrizione più dettagliata delle risposte ottenute alle dodici domande del questionario.
Alla prima domanda, “Come definiresti la depressione?”, hanno risposto così:
56 (4%) non lo so
76 (6%) una malattia neurologica
490 (37%) una malattia psichica
72 (6%) una mancanza di volontà
588 (45%) un disturbo dell’umore
24 (2%) altro
(2 dati non rilevati)
Il 45% dei giovani costituenti il campione ha risposto “un disturbo dell’umore”, con ciò mostrando d’inquadrare correttamente la depressione come patologia inerente una precisa funzione psichica, l’umore appunto, fondamentale nell’adattamento al nostro mondo interno e a quello esterno. In particolare, si parla di depressione quando il tono dell’umore perde il suo carattere di flessibilità, si fissa verso il basso e non è più influenzabile dalle situazioni esterne favorevoli.
Di fronte al compito di definire la depressione è quindi emerso un buon livello di conoscenza: la parte numericamente più significativa dei rispondenti ha optato per l’alternativa corretta, una percentuale di poco inferiore (37%) si è assestata sull’opzione più generica di “malattia psichica”, mentre solo un’esigua porzione ha mostrato di privilegiare le soluzioni meno appropriate.
Per completezza, è tuttavia necessario precisare che l’abbassamento del tono dell’umore, condizio- ne costante di ogni fenomeno depressivo, tende ad accompagnarsi ad altri sintomi. Nelle fasi più lievi o in quelle iniziali, lo stato depressivo può essere vissuto come incapacità di provare un’ade- guata risonanza affettiva o come spiccata labilità emotiva. Nelle fasi acute, il disturbo dell’umore diviene evidente e si manifesta con vissuti di profonda tristezza, dolore morale, disperazione, sgo-
mento, associati alla perdita dello slancio vitale e all’incapacità di provare gioia e piacere. Col pro- gredire della malattia, la stanchezza e il senso di astenia divengono così accentuati da ostacolare lo svolgimento di ogni attività. E’ inoltre frequente la riduzione dell’appetito, con conseguente dima- grimento. I disturbi del sonno sono molto diffusi e l’insonnia spesso si caratterizza per i numerosi risvegli, soprattutto nelle prime ore del mattino. Sintomo tipico della depressione è infine l’alternan- za diurna: il paziente al risveglio mattutino si sente maggiormente depresso e angosciato, mentre con il trascorrere del giorno, nelle ore pomeridiane o serali, avverte un lieve miglioramento della sintomatologia.
Stando alle più recenti ricerche epidemiologiche, in Italia sono almeno 1,5 milioni le persone che soffrono di depressione, mentre il 10% della popolazione, cioè circa 6 milioni di persone, ha soffer- to almeno una volta, nel corso della propria vita, di un episodio depressivo. Secondo le previsioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’anno 2020 la depressione sarà la seconda causa di malattia, dopo le malattie cardiovascolari, in tutto il mondo, Italia compresa. La depressione è peral- tro fonte di sofferenza, oltre per chi ne è affetto, anche per i familiari per cui, tenendo conto che per ogni paziente sono coinvolti almeno due-tre familiari, il numero delle persone coinvolte indiretta- mente dal disturbo depressivo è di 4-5 milioni.
Informazioni più approfondite sul Disturbo Depressivo si possono trovare nella Sezione Pubblica- zioni online del sito dell’Associazione.
Alla seconda domanda, “Come definiresti l’ansia?”, hanno risposto così:
28 (2%) non lo so
52 (4%) una malattia psichica
944 (72%) uno stato di tensione emotiva
252 (19%) uno stato di preoccupazione
24 (2%) una malattia neurologica
8 (1%) altro
(0 dati non rilevati)
Ancor più che nel caso della depressione, i giovani chiamati a definire l’ansia hanno risposto per la maggior parte (72%) in modo competente, indicando l’opzione: “uno stato di tensione emotiva”.
Un commento può essere fatto a proposito dell’alternativa, scelta dal 19% dei rispondenti, che de- scrive l’ansia come “uno stato di preoccupazione”.
Entrando nel merito di ciò che i singoli termini significano, per preoccupazione s’intende una rispo- sta emotiva comune, legata alla percezione di una minaccia, di un momento critico, di un’emergen- za e soggettivamente viene descritta ricorrendo a formule quali: apprensione, inquietudine e timore preventivo. La preoccupazione o ansia fisiologica, quindi, rappresenta uno stato d’animo, un’espres-
sione emozionale che possiamo definire “normale” in quanto riconducibile a circostanze reali e con- crete, dotate dei caratteri di pericolo e di rischio.
Diversamente dalla semplice preoccupazione, l’ansia patologica è un vero e proprio disturbo che si caratterizza per essere una risposta inappropriata a situazioni esistenziali o relative all’ambiente e tale da determinare notevoli alterazioni delle normali capacità individuali. È uno stato di tensione emotiva cui spesso si accompagnano sintomi fisici quali tremore, sudorazione, palpitazioni e au- mento della frequenza cardiaca.
Rimandiamo alla Sezione Pubblicazioni online del nostro sito per la descrizione più dettagliata dei sintomi di tipo psichico, somatico e comportamentale dei Disturbi d’Ansia.
Alla terza domanda, “Attraverso quali canali hai acquisito informazioni su depressione e ansia?”, hanno risposto così:
286 (22%) non ho informazioni su tali temi
150 (12%) attraverso internet (ricerche specifiche, blog, chat, social network ecc.)
250 (19%) attraverso lettura di articoli su giornali e/o libri
370 (28%) da conoscenti che ne soffrono
250 (19%) altre modalità
(2 dati non rilevati)
Solo il 22% dei partecipanti alla ricerca dichiara di “non avere informazioni” sui disturbi depressivi e ansiosi. Tutti gli altri, attraverso canali diversi, affermano di averne sentito parlare e di disporre di nozioni in merito.
Tra questi ultimi, la percentuale maggiore (28%) possiede informazioni ottenute direttamente “da conoscenti che ne soffrono” e il dato stesso, oltre a testimoniare la diffusione dei fenomeni depressivi e ansiosi, indica l’importanza delle relazioni e del “passaparola” come veicolo comunicativo. È tuttavia possibile constatare, come peraltro conferma l’esperienza clinica quotidiana, che si tratta spesso di notizie e interpretazioni che rischiano di essere fuorvianti. Vivere una crisi di carattere emotivo consente infatti di raccontare l’esperienza dal proprio punto di vista, che sarà però condizionato da elementi soggettivi e quindi parziale rispetto alla multiforme complessità degli eventi depressivi e ansiosi.
Il 19% dei rispondenti ha poi riferito di essere provvisto di informazioni acquisite “attraverso la lettura di articoli su giornali e/o libri” e il 12% “attraverso internet (ricerche specifiche, blog, chat,
social network ecc.)”. Appare significativo che circa un terzo dei giovani costituenti il campione abbia approfondito le proprie conoscenze attraverso la consultazione attiva di materiali specifici.
Alla quarta domanda, “Se nella cerchia delle tue conoscenze vi sono state persone che hanno sofferto di depressione e/o ansia, la situazione è stata affrontata:”, hanno risposto così:
544 (42%) non lo so
198 (15%) con l’uso di psicofarmaci
234 (18%) con una psicoterapia
294 (22%) con la combinazione di terapia farmacologica e terapia psicologica
(38 dati non rilevati)
Il dato che più colpisce è che il 42% dei giovani costituenti il campione, quindi poco meno della metà dei rispondenti, dichiara di non avere informazioni su come siano state affrontate, dal punto di vista terapeutico, eventuali situazioni di carattere depressivo e/o ansioso nella cerchia delle proprie conoscenze.
Tra coloro che hanno optato per un’altra delle alternative proposte, il 15% ha segnalato l’opzione “psicofarmaci”, il 18% ha richiamato in modo univoco la “psicoterapia” e solo una porzione lievemente superiore, pari al 22% dei giovani partecipanti alla ricerca, ha indicato il ricorso a una “combinazione di terapia farmacologica e terapia psicologica”.
Sulla base dei dati raccolti, emerge quindi l’occasione per alcune precisazioni.
Quando è presente una sintomatologia invalidante, la cui gravità è tale da determinare interferenze o inibizioni nella vita affettiva, lavorativa o sociale, è necessario ottenere, nel giro di poche settimane, la regressione della fase acuta del disturbo e ciò è possibile mediante l’utilizzo dei farmaci. La loro azione è puramente chimica: essi operano sui neurotrasmettitori cerebrali, ne aumentano la disponibilità a livello delle cellule dell’encefalo e a ciò corrisponde un miglioramento dei sintomi. In questo tipo d’intervento il paziente è passivo e si deve solo limitare al rispetto della prescrizione medica. Va comunque tenuto presente che i farmaci non hanno alcun effetto sulle cause che hanno determinato l’origine dei sintomi e che, per agire su di esse, è necessario l’utilizzo dello strumento psicologico, cioè la psicoterapia. Essa però richiede un atteggiamento attivo del paziente e una sua cooperazione con lo psicoterapeuta nel processo psicologico di ricerca. Proprio per questo è
consigliabile che il lavoro psicoterapeutico venga iniziato quando il paziente è in grado di fornire la sua collaborazione e quindi non durante la fase acuta del disturbo. In generale risulta preferibile intervenire prima con i farmaci e, quando i sintomi sono regrediti, iniziare il lavoro psicologico.
Per meglio comprendere la differenza tra l’intervento con i farmaci e quello con la psicoterapia, possiamo utilizzare la metafora della cura del mal di denti. Se il dolore è molto forte, è indicato l’u- so di un antidolorifico, tenendo però ben presente che la sua azione si limita al controllo del sintomo dolore e che invece non agisce su ciò che lo determina, ad esempio una carie, per curare la quale è necessaria un’azione specifica dello specialista.
Allo stesso modo, quando sono presenti sintomi depressivi e/o ansiosi invalidanti, è utile l’uso degli psicofarmaci, tenendo però sempre presente che essi agiscono solo sui sintomi e non sulle cause che li hanno determinati, per individuare e curare le quali è invece necessario utilizzare lo strumento psicoterapeutico. Agire sul malessere psichico unicamente con l’intervento farmacologico, senza occuparsi della ricerca e della cura delle cause, vuol dire non affrontare il problema alle radici e so- prattutto correre il rischio del ripetersi delle crisi.
Alla quinta domanda, “Secondo te quanto può incidere la forza di volontà nel superamento della depressione e dell’ansia?”, hanno risposto così:
16 (1%) niente
84 (7%) poco
348 (27%) abbastanza
856 (65%) molto
(4 dati non rilevati)
Il 65% del campione, quindi una porzione molto elevata di rispondenti, ha indicato che la forza di volontà incide “molto” nel superamento dei disturbi depressivi e ansiosi. Proprio questa percentuale di risposta descrive la diffusione di uno dei pregiudizi più radicati che riguardano la sofferenza emotiva. Quando è presente una crisi depressiva non è infatti corretto ritenere sufficiente uno sforzo
di volontà per risolvere il problema e l’infondatezza di questo pensiero risulta evidente dalle se- guenti considerazioni:
– la volontà è la quantità di energia psichica che una persona ha a disposizione e che, quindi, può in – vestire nelle proprie attività quotidiane;
– nel quadro depressivo, vale a dire nello stato di malattia, si verifica una netta riduzione della quan- tità d’energia di cui un soggetto può disporre.
La riduzione dell’energia psichica disponibile è dunque parte integrante della sintomatologia de- pressiva e appare chiaro che non si potrà puntare sulla volontà (cioè sull’energia psichica posseduta) per il superamento della crisi.
Il suddetto pregiudizio è però molto diffuso ed è comune, per chi soffre di una crisi depressiva, sen- tirsi dire che, se ci mettesse più volontà, sarebbe in grado di superare il momento difficile che sta vi- vendo ed uscire così dalla sua situazione di sofferenza. Siccome tale messaggio giunge al depresso da più fonti, egli stesso finisce per convincersene.
Va tuttavia sottolineato che la suddetta comunicazione, pur se animata da buone intenzioni e finaliz- zata a fornire un aiuto al paziente, non tiene conto della natura stessa del disturbo depressivo e fini- sce per essere controproducente, determinando l’aumento dei sensi di colpa, peraltro già presenti a causa della malattia, e un peggioramento del quadro depressivo.
Alla sesta domanda, “Ti risulta che nella cerchia delle tue conoscenze, per far fronte a depressione e/o ansia, siano state anche utilizzate modalità quali:”, hanno risposto così:
282 (21%) abuso di sostanze alcoliche
76 (6%) psicofarmaci non prescritti dal medico di famiglia o dallo specialista
128 (10%) uso di “droghe leggere” (ad es.marijuana, hashish)
34 (3%) cocktail delle suddette sostanze
60 (4%) uso di “droghe pesanti” (ad es.eroina, cocaina)
678 (52%) non lo so
(50 dati non rilevati)
Questa domanda è stata formulata per indagare il tema delle modalità improprie con cui spesso vengono fronteggiati i malesseri depressivi e ansiosi.
Il primo dato che colpisce è che più della metà del campione (52%) ha dichiarato di non avere informazioni in merito. Ciò è, perlomeno in parte, riconducibile al fatto che non tutti possiedono
informazioni provenienti dalla cerchia delle proprie conoscenze. Chi anche fosse in condizione di ricevere queste notizie non è peraltro detto che le ottenga, almeno per tre ordini di motivazioni.
La prima è la frequente presenza di vissuti di vergogna nelle persone che vivono un malessere di tipo ansioso o depressivo, fino a decidere di non parlarne per il timore di essere etichettati come “matti”.
La seconda è che l’abuso di sostanze legali (alcol) e l’uso di sostanze illegali (droghe “leggere e pesanti”) sono condotte di cui tendenzialmente si parla solo con le persone che le condividono e/o praticano, con conseguente blocco comunicativo rispetto all’esterno.
La terza suggerisce che chi ricorre a modalità improprie per contrastare depressione e ansia spesso non è consapevole di farlo per gestire, illusoriamente, un disagio di carattere emotivo.
Il 21% dei partecipanti alla ricerca in possesso di informazioni sufficienti per rispondere ha indicato l’opzione “abuso di sostanze alcoliche”, il 10% “uso di droghe leggere (ad es. marijuana, hashish)”, il 6% “psicofarmaci non prescritti dal medico di famiglia o dallo specialista” e il 4% “uso di droghe pesanti (ad es. eroina, cocaina)”.
Rispetto ad alcol e droghe sarebbe sicuramente utile un approfondimento, volto a discutere le specificità di ogni sostanza in termini di effetti e conseguenze dannose. Usciremmo tuttavia dai confini e dagli obiettivi pensati per questo resoconto di ricerca. Ci limitiamo quindi a dire che, pur con modalità e intensità diverse, le sostanze di cui sopra sono in genere assunte perché procurano riduzione dell’angoscia, rilassatezza, senso di benessere, euforia e disinibizione comportamentale. A questi esiti però si accompagnano costi molto elevati in termini di salute sia sul piano fisico sia su quello psichico e di certo non è pensabile che si ottengano benefici terapeutici per quanto riguarda ansia e depressione.
Per ciò che concerne l’inopportunità che gli psicofarmaci siano utilizzati senza prescrizione del medico di famiglia o dello specialista, ci limitiamo a ribadire che i farmaci sono utili a condizione che vengano indicati e monitorati da chi ha le competenze professionali per farlo, dopo la formulazione di una diagnosi accurata e corretta. Ogni forma di automedicazione è pertanto sconsigliata.
Alla settima domanda, “Secondo te a chi dovrebbe rivolgersi una persona che soffre di depressione e/o ansia?”, hanno risposto così:
98 (7%) a nessuno: deve contare solo sulle proprie forze
666 (51%) ad uno psicologo
224 (17%) ad un amico/a
40 (3%) ad un neurologo
90 (7%) al medico di base
178 (14%) ad uno psichiatra
(12 dati non rilevati)
Pur essendo forte il pregiudizio secondo cui uno sforzo di volontà sarebbe sufficiente per superare i disturbi depressivi e ansiosi (come già discusso commentando le percentuali di risposta alla domanda n. 5), di fronte al quesito: “Secondo te a chi dovrebbe rivolgersi una persona che soffre di depressione e/o ansia?”, solo il 7% dei rispondenti ha scelto l’opzione: “a nessuno: deve contare solo sulle proprie forze”.
Rispetto alla scelta dell’interlocutore a cui rivolgersi è possibile formulare alcune riflessioni.
Il 17% dei partecipanti ha mostrato di privilegiare l’alternativa dell’ “amico/a”, optando per la ricerca di solidarietà e compartecipazione nel proprio ambito sociale più prossimo. Si tratta tuttavia di una percentuale piuttosto esigua, alla cui base è ipotizzabile ci siano vissuti di vergogna, assieme alla convinzione che i disturbi depressivi e ansiosi, già misteriosi per chi li vive, non possano essere compresi dagli altri.
Il 51% dei giovani, dunque più della metà del campione, ha invece sostenuto l’opportunità di orientarsi verso un riferimento professionalmente qualificato, lo “psicologo”, con ciò rivelando peraltro di riconoscere la natura emotiva delle problematiche depressive e ansiose. Il lavoro dello psicologo si concentra infatti soprattutto sulle emozioni, ovvero su quella parte della vita psichica che sfugge al controllo della ragione, promuovendo la risoluzione dei conflitti interni mediante l’introspezione e l’acquisizione di consapevolezza.
È significativo, infine, che solo il 14% dei rispondenti abbia indicato l’alternativa dello “psichiatra”, che è lo specialista cui prioritariamente compete la cura delle patologie depressive e ansiose, soprattutto quando l’intensità dei sintomi determina importanti limiti nella vita affettiva, scolastica, lavorativa e sociale.
In tali casi spetta allo psichiatra il compito di valutare l’opportunità di un intervento con i farmaci mediante il quale superare la fase acuta nel giro di quattro/sei settimane.
In realtà solo una minoranza delle persone affette da depressione o ansia (circa 25%) consulta il medico psichiatra. Ciò accade per la presenza radicata di pregiudizi, uno dei quali può essere così esemplificato: “lo psichiatra cura i matti e se mi rivolgo ad uno psichiatra sono anch’io matto o considerato tale”. In altri termini, a livello collettivo lo psichiatra evoca l’immagine della follia e da ciò si genera una sorta di cortocircuito, per cui rivolgersi allo psichiatra vorrebbe dire essere folli. L’auspicio è che una corretta informazione e una migliore conoscenza dei temi che stiamo trattando portino progressivamente al superamento di simili preconcetti, al fine di fornire a molte persone in
stato di intensa sofferenza l’aiuto di cui hanno bisogno e che oggi, grazie alle nuove acquisizioni scientifiche, è possibile offrire loro.
All’ottava domanda, “Di cosa si occupa lo psichiatra?”, hanno risposto così:
164 (13%) non lo so
594 (45%) cura solo chi soffre di una grave malattia mentale
174 (13%) cura solo chi soffre di una malattia nervosa
360 (28%) cura solo chi soffre di disturbi della sfera emotiva
(16 dati non rilevati)
Il 28% dei giovani coinvolti ha risposto correttamente, indicando che lo psichiatra “cura chi soffre di disturbi della sfera emotiva”. La psichiatria è infatti quella specializzazione per conseguire la quale necessitano cinque anni di studi successivi alla laurea in medicina e che si occupa della terapia dei disturbi psichici, nella più vasta accezione del termine. Il 45% del campione ha invece risposto che lo psichiatra “cura solo chi soffre di una grave malattia mentale”, confermando l’esistenza del pregiudizio, discusso poco sopra, secondo cui lo psichiatra è tendenzialmente pensato come il medico dei matti. Rispetto a questa interpretazione restrittiva e preconcetta potremmo persino considerare più favorevole la risposta “non lo so” scelta dal 13% dei partecipanti alla ricerca. I pregiudizi, infatti, oltre ad essere diffusi, sono estremamente resistenti al cambiamento, per cui, sul piano dell’acquisizione di corrette informazioni, è preferibile partire da una dichiarata assenza di conoscenze.
Alla nona domanda, “Secondo te è vero che lo psicologo cura solo attraverso la parola e la relazione e non prescrive farmaci?”, hanno risposto così:
270 (21%) non lo so
712 (54%) vero
302 (23%) falso
(24 dati non rilevati)
Il 54% dei giovani coinvolti nella ricerca ha risposto correttamente, considerando “vera” l’affermazione secondo cui lo psicologo cura solo attraverso la parola e la relazione e non prescrive farmaci. La restante parte del campione, poco meno della metà dei partecipanti, si è invece distribuita equamente tra l’alternativa “non so” (21%), indicata da coloro che non conoscono la specificità professionale dello psicologo, e l’opzione “falso” (23%), ritenuta appropriata da quanti
probabilmente confondono gli interventi che competono allo psicologo e al medico psichiatra. Appare quindi utile un approfondimento in merito.
Si è già sottolineato che la prescrizione di farmaci può essere effettuata unicamente da un medico e che il medico specialista nel trattamento farmacologico dei disturbi emotivi è lo psichiatra. È inoltre importante ribadire che i farmaci mirano al ripristino della situazione precedente agendo solamente sul piano chimico, senza alcun effetto sulle cause che hanno generato i sintomi.
Anche lo psicologo si occupa della cura della psiche, ma esclusivamente mediante la parola e la relazione, con lo scopo di ricostruire la storia della sofferenza del paziente, coglierne l’origine e comprenderne il senso. Si può quindi dire che i due tipi di interventi, farmacologico e psicologico, stiano tra di loro in rapporto di complementarietà, poiché rivolti al conseguimento di finalità differenti e integrabili.
Ancora una precisazione: quando si parla di indagine e cura dei disturbi emotivi attraverso l’utilizzo di strumenti psicologici ci si riferisce propriamente alla psicoterapia. È quindi necessario chiarire chi sia lo psicoterapeuta e quali siano le caratteristiche principali del lavoro psicoterapeutico.
Lo psicoterapeuta è un professionista che, oltre alla laurea in psicologia o medicina, ha conseguito una specializzazione, di durata almeno quadriennale, che gli consente di essere iscritto all’albo degli psicoterapeuti e l’autorizza a esercitare l’attività psicoterapeutica. Una parte fondamentale del suo percorso formativo, oltre allo studio dei testi e al superamento degli esami, consiste nell’essersi lui stesso sottoposto per anni a un lavoro di analisi personale e a supervisioni di casi clinici da parte di psicoterapeuti più esperti. Durante la sua formazione impara a riconoscere le proprie dinamiche interne e relazionali, acquisisce strumenti tecnici specifici e sviluppa quella sensibilità empatica che gli consentirà di essere egli stesso il primo “strumento” del lavoro psicoterapeutico.
Per approfondimenti sul tema della psicoterapia rimandiamo anche in questo caso alla Sezione Pubblicazioni online gratuite del sito dell’Associazione.
Alla decima domanda, “Nella cura della depressione e dell’ansia la psicoterapia serve per:”, hanno risposto così:
358 (27%) avere uno spazio dove “sfogarsi”
146 (11%) avere indicazioni su come comportarsi
520 (40%) ricercare le motivazioni del proprio malessere
138 (11%) acquisire informazioni psicologiche sul proprio disturbo
136 (10%) non lo so
(10 dati non rilevati)
Come ha risposto il 40% dei partecipanti alla ricerca, nella cura della depressione e dell’ansia la psicoterapia serve per “ricercare le motivazioni del proprio malessere”. Può anche rappresentare, soprattutto in alcuni momenti, un’opportunità per scaricare tensioni e dispiaceri. È tuttavia limitativo e improprio considerarla unicamente uno “spazio dove sfogarsi” poiché ciò significa non riconoscerne la specificità e assimilarla ad altre tipologie di relazioni. Anche con parenti, amici e conoscenti è talvolta possibile dare sfogo a contenuti emotivi dolorosi, pur non trattandosi di rapporti con obiettivi terapeutici. Allo stesso modo, è inopportuno ricondurre l’utilità della psicoterapia al fatto di ottenere “indicazioni su come comportarsi”. Lo psicoterapeuta infatti non dà consigli ma aiuta la persona a entrare in contatto con la propria emotività, a sviluppare nuove consapevolezze e fare chiarezza dentro di sé. Ogni forma di pressione o coercizione deve rimanere estranea al rapporto terapeutico. Rispetto alla possibilità di “acquisire informazioni psicologiche sul proprio disturbo”, è infine necessario sottolineare che il compito dello psicoterapeuta non è quello di istruire il paziente con nozioni di tipo tecnico, saturando gli incontri con commenti teorici astratti, ma di accompagnarlo nella scoperta del suo particolare malessere per come emerge e si manifesta.
All’undicesima domanda, “Secondo te gli antidepressivi e gli ansiolitici:”, hanno risposto così:
252 (19%) sono dannosi per il fisico
512 (39%) creano dipendenza psico-fisica
246 (19%) servono solo per curare i sintomi della fase acuta
80 (6%) causano la riduzione del livello di coscienza
210 (16%) non ho opinioni in merito
(8 dati non rilevati)
Nei confronti dei farmaci è possibile sottolineare l’esistenza di atteggiamenti di divinizzazione o, al contrario, di demonizzazione. In base ai primi bisogna affidarsi ciecamente ai farmaci perché, gra- zie ad essi, è possibile risolvere, sempre e comunque, qualunque tipo di problema. In base invece ai secondi, i farmaci sono prodotti chimici, non naturali, per cui è maggiore il danno che procurano, in termini di fenomeni collaterali, rispetto ai vantaggi. Estremizzando, i due tipi opposti di atteggia- mento danno origine a due diversi approcci pregiudiziali che possiamo così sintetizzare: l’atteggia- mento divinizzante porta al “farmaci sempre”, quello di demonizzazione conduce al “farmaci mai”. Gli psicofarmaci sono quindi considerati da alcuni come la soluzione definitiva di qualunque pro- blema riguardante la sfera psichica, mentre da altri assimilati alle sostanze stupefacenti, per cui se
ne teme la “dipendenza psico-fisica”, come sostenuto dal 39% del campione di rispondenti, e la “ri- duzione del livello di coscienza”, come dichiarato dal 6% dei partecipanti alla ricerca.
I due tipi di atteggiamento sopra esposti interferiscono con una visione realistica, in base alla quale sono strumenti da utilizzare “solo per curare i sintomi della fase acuta” di un disturbo, come corret- tamente indicato da una percentuale minoritaria del campione, corrispondente al 19% dei giovani coinvolti. Il loro scopo è di ridurre i sintomi: sono cioè “sintomatici” e vanno sospesi quando la fase acuta regredisce. In linea con quanto già discusso, non hanno invece alcuna azione sulle cause del malessere psichico, per la cui cura è necessario intraprendere la via psicologica.
Rispetto alle terapie farmacologiche antidepressive, si può dire che in generale non provocano alcun tipo di dipendenza fisica. È però possibile che si venga ad instaurare una dipendenza di tipo psicolo- gico, legata alla convinzione che la sospensione della cura determini la riattivazione dei sintomi. Questo tipo di timore determina, a volte, la prosecuzione dell’assunzione in regime di autogestione, cosa da evitare.
Altro timore diffuso è che gli antidepressivi possano “togliere la lucidità”. Si trascura tuttavia il fat- to che sono proprio i disturbi depressivi a produrre la riduzione della concentrazione, dell’attenzio- ne, della memoria e, di conseguenza, un netto calo delle prestazioni in ambito scolastico e lavorati- vo. Contrariamente a quanto si pensa, quindi, un trattamento antidepressivo ben condotto non solo non provoca perdita di lucidità ma ne determina un progressivo aumento, fino al recupero totale.
In ultimo, il pensiero che gli antidepressivi possano “cambiare la personalità” è infondato. Di fatto i farmaci non agiscono modificando le strutture o le funzioni cerebrali di base che determinano le ca- ratteristiche di personalità, ma operano favorendo un miglioramento dei sintomi e un riequilibrio graduale della personalità.
Rimandiamo ancora una volta alla Sezione Pubblicazioni online del sito dell’Associazione per in- formazioni più approfondite e specifiche sul tema degli antidepressivi.
All’ultima domanda, “Quale dei seguenti consigli daresti ad una persona che soffre di depressione e/o di ansia?”, hanno risposto così:
276 (21%) “Cerca di tirarti su … bisogna rimboccarsi le maniche”
234 (18%) “Sono malattie curabili, ma devi rivolgerti al tuo medico”
240 (18%) “Non c’è bisogno né di medici né di medicine, è solo un problema di buona volontà”
92 (7%) “Fai solo le cose che ti piacciono e vedrai che ti passa”
442 (34%) “Devi chiedere aiuto a uno psicologo”
(24 dati non rilevati)
Sono da ritenersi appropriate le risposte di coloro che direbbero: “Sono malattie curabili, ma devi rivolgerti al tuo medico” (18%), e di quanti direbbero: “Devi chiedere aiuto a uno psicologo” (34%). Si tratta di suggerimenti corretti poiché consentono di uscire dalla dimensione parascientifi- ca in cui questi disturbi tendono ad essere inseriti e di ricondurre il problema in ambito medico – psicologico.
In questa logica risultano meno adeguate le risposte del restante 46% del campione, ovvero di chi esprimerebbe i seguenti consigli: “Cerca di tirarti su … bisogna rimboccarsi le maniche” (21%); “Non c’è bisogno né di medici né di medicine, è solo un problema di buona volontà” (18%); “Fai solo le cose che ti piacciono e vedrai che ti passa” (7%).
Per riprendere quanto discusso in precedenza, siamo di fronte a suggerimenti che, pur se dettati da buone intenzioni, rischiano di essere dannosi in quanto si fondano sul pregiudizio della volontà. A tale proposito ribadiamo con forza quanto affermato in precedenza: i disturbi depressivi comportano la riduzione dell’energia vitale di cui il soggetto può disporre e a ciò consegue che è irrealistica la possibilità di utilizzare lo strumento della volontà per uscire dalla crisi.
In conclusione, vogliamo ringraziare tutti i giovani che hanno collaborato alla ricerca rispondendo al questionario. La loro attenzione è stata un segnale chiaro del valore riconosciuto alla vita psichica, anche quando si esprime attraverso il linguaggio della sofferenza, sia essa di carattere ansioso o depressivo.
Alcune conoscenze sono emerse più sedimentate e diffuse: facciamo riferimento in particolare a quelle relative alle definizioni dei Disturbi Depressivi e Ansiosi.
Altre invece sono apparse ancora incerte: quelle riferite, ad esempio, ai temi della volontà, della figura professionale dello psichiatra e della dipendenza dagli antidepressivi.
Del resto i pregiudizi che gravitano attorno al tema della salute emotiva, assieme ai conseguenti comportamenti ed atteggiamenti non corretti, sono ancora molto diffusi e radicati nella società in cui viviamo. La conoscenza è l’unico strumento in grado di contrastarli ed è per tale motivo che riteniamo sia importante dedicare a tali temi opportuni spazi d’informazione, approfondimento e sensibilizzazione.