Una preoccupazione spesso presente in chi deve assumere una terapia antidepressiva è riferita al timore degli “effetti collaterali” dei farmaci prescritti.
I timori sono legittimi, ma non bisogna dimenticare gli “effetti collaterali” dei disturbi dell’umore in termini di limitazioni e compromissioni funzionali nella vita sociale, lavorativa e affettiva. Tali disturbi, infatti, soprattutto la depressione ricorrente con frequenti ricadute, le forme bipolari e i quadri a decorso protratto, condizionano negativamente la vita del paziente e della sua famiglia.
Inoltre, se non sono messe in atto adeguate misure terapeutiche, possono determinare l’aggravamento di eventuali patologie organiche concomitanti o produrre gravi complicanze, quali condotte anticonservative e abuso di alcool o droghe.
Influenza sull’adattamento lavorativo, sociale e affettivo
L’ambito lavorativo è abitualmente il primo a risente della presenza di una malattia caratterizzata da episodi lunghi e ricorrenti che provocano ripetute assenze. Durante l’episodio depressivo prevale uno stato d’animo improntato al pessimismo e alla rinuncia che provoca difficoltà a prendere decisioni, ad assumersi responsabilità, dipendenza, incertezza, esagerata sensibilità alle critiche e ai rifiuti. Superata la fase acuta, in particolare se questa ha prodotto un lungo periodo di sofferenza e frustrazioni, può persistere una visione negativa di sé e del mondo che rende ancora più difficile il raggiungimento di una posizione sociale rispondente alle aspettative ed ai meriti. Di conseguenza il soggetto tende ad isolarsi, a vivere con il rammarico per le perdute opportunità di affermazione e a sviluppare atteggiamenti vittimistici o rivendicativi.
Non meno dannosi sul piano lavorativo ed economico sono gli episodi maniacali a causa soprattutto della riduzione della capacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni. In queste fasi il paziente può avere condotte finanziarie azzardate, come spendere eccessivamente, essere prodigo, fare investimenti a rischio o può commettere veri e propri reati, come emettere assegni a vuoto o acquistare beni senza un’adeguata copertura finanziaria.
Nei rapporti sociali, inoltre, sono causa di disadattamento l’alternanza di periodi d’introversione, chiusura e ricerca della solitudine delle fasi depressive e, al contrario, periodi di estroversione, aumentato bisogno di contatti interpersonali, assunzione di atteggiamenti intrusivi, inopportuni o disinibiti delle fasi maniacali. Perplessità e diffidenza possono provocare tra amici e conoscenti anche la labilità emotiva, l’irritabilità e l’eventuale messa in atto di comportamenti aggressivi o violenti.
Non desta pertanto meraviglia il fatto che i pazienti con disturbi dell’umore vadano incontro ad un graduale deterioramento dei rapporti interpersonali fino al completo isolamento, che persiste anche nelle fasi intervallari.
Numerose ricerche hanno evidenziato che nei pazienti con disturbi dell’umore sono spesso presenti difficoltà di adattamento in ambito affettivo che possono riguardare sia l’avvio di una nuova relazione, sia il mantenimento di un legame stabile e duraturo. Dalle ricerche epidemiologiche è, infatti, emerso che, rispetto alla popolazione generale, nei soggetti con disturbi dell’umore è significativamente più elevata la percentuale di celibi/nubili, separati e divorziati. Nella fase depressiva la riduzione della comunicazione verbale costituisce un intralcio all’inizio o al mantenimento di una relazione. Sono tuttavia le fasi maniacali la principale causa di destabilizzazione della vita di coppia, soprattutto quando si manifestano comportamenti sessuali promiscui, abuso di alcool o sostanze, decisioni avventate in campo finanziario, comportamenti violenti.
Non bisogna dimenticare che spesso il coniuge vive l’episodio depressivo come una malattia su cui il paziente ha scarsa possibilità di controllo e necessita quindi di sostegno fisico e affettivo. Al contrario, la fase maniacale non di rado è vissuta come una condizione nella quale il soggetto volutamente rifiuta le cure e assume atteggiamenti o comportamenti che danneggiano l’immagine ed il ruolo sociale proprio e dei familiari.
Complicanze organiche
La presenza di un disturbo dell’umore non di rado influenza negativamente lo stato generale di salute del paziente, soprattutto se è già presente una malattia fisica, il cui quadro clinico e il cui decorso possono risultare modificati in senso peggiorativo. Malattie gastrointestinali, cardiovascolari, diabete o ipertensione, in pazienti con depressione non trattata, hanno maggiore gravità, durata dei ricoveri più lunga e maggiore incidenza di complicanze. Le difficoltà derivano soprattutto dall’alimentazione non corretta, dall’alterazione del ritmo sonno-veglia e dall’irregolare assunzione delle terapie. In tali casi, se non è presente un valido supporto familiare, il paziente può andare incontro a notevole calo ponderale, disidratazione e talvolta, a causa del sopraggiungere di uno stato tossico o infettivo, può manifestare anche alterazioni dello stato di coscienza e disorientamento spazio-temporale. Si tratta di condizioni che costituiscono una minaccia per la vita e che spesso richiedono il ricovero in ambiente ospedaliero.
Condotte anticonservative
La profonda demoralizzazione, l’indifferenza affettiva, la perdita di speranza per il futuro possono portare il paziente a considerare la morte come l’unica via di uscita dallo stato di sofferenza in cui si trova e spingerlo quindi a mettere in atto condotte anticonservative. In soggetti sofferenti di disturbi dell’umore il rischio di suicidio è molto più alto rispetto a pazienti con altre patologie e la mortalità è superiore a quella della maggior parte delle affezioni cardiache. Purtroppo il preconcetto che il suicidio rappresenti “un atto di volontà” e il frutto di una “scelta libera” dell’individuo ha portato a sottovalutare il problema. Oggi si calcola che idee di suicidio sono presenti per l’intera durata dell’episodio nel 60-80% dei depressi, che un gesto anticonservativo è compiuto almeno una volta nella vita nel 30-50% dei casi e che circa la metà di chi tenta il suicidio ripete più volte il gesto. I dati riferiti concordano con l’osservazione che il 30-40% di chi muore per suicidio in precedenza aveva già messo in pratica comportamenti anticonservativi. La mortalità per suicidio nei pazienti con disturbi dell’umore è circa 20-30 volte superiore a quella della popolazione generale.
L’argomento del rischio di suicidio sarà trattato più ampiamente in un’altra pubblicazione online.
Uso di sostanze alcoliche
Molti studi hanno evidenziato che l’abuso di alcool o droghe è in grado di scatenare, in soggetti predisposti, l’insorgenza di un disturbo dell’umore, influenza negativamente il decorso di tale patologia e ne rende più complicato il trattamento.
Abuso di sostanze e disturbi dell’umore sono comunque spesso associate e si è molto discusso su quale delle due patologie debba essere considerata primaria. E’ stato proposto d’inquadrare l’abuso di alcolici o di sostanze come una “semplice complicanza” dei disturbi dell’umore, i quali rappresenterebbero pertanto la patologia principale. Le condotte di abuso sarebbero allora un tentativo di autoterapia e il loro decorso dovrebbe risultare strettamente correlato alle fasi di esacerbazione/remissione della malattia maniaco-depressiva.
In realtà nel 60% dei casi sono le condotte di abuso a comparire per prime per cui, adottando un criterio cronologico, queste assumono un ruolo primario, probabilmente contribuendo come concausa ad evidenziare il disturbo dell’umore.
Diversi studi clinici hanno evidenziato che nella depressione con alcolismo, rispetto a quella in cui non vi è abuso di alcol, sono presenti un numero più elevato d’indicatori di rischio di suicidio, una maggiore gravità dei sintomi vegetativi (insonnia, inappetenza con dimagrimento e riduzione della libido) e più rapidi e frequenti cambiamenti del tono dell’umore.
Nelle ricerche più recenti è stato abbandonato il problema della subordinazione, gerarchica o temporale, tra condotte di abuso e disturbi dell’umore e si preferisce considerare le due patologie in rapporto di “comorbilità” (contemporanea presenza), poiché questo modello fornisce schemi interpretativi più vicini alla realtà clinica.